7/21/2011

Lodi alla Madre di Dio




 Aprirò la mia bocca, e si colmerà di Spirito, e proferiro parole  per la regina Madre; e mi presenterò gioioso in feste e canterò gaio le sue meraviglie.
A quelli che ti cantano lodi, o Madre di Dio,Tu che sei sorgente viva e traboccante ,e ti venerano insieme ,rinforza lo spirito, e nel giorno della tua divina gloria , rendili degni di corone di gloria
Il profeta Abakum avendo compreso il disegno Divino dell’incarnazione del Signore dalla vergine acclamava; gloria alla tua divina forza Signore.
Sbalordisce l’universo per la tua divina gloria; tu infatti , Vergine che non hai conosciuto nozze , hai portato in ventre il Dio di tutti , e hai partorito il Figlio che è oltre il tempo, e che premia con la salvezza  tutti quelli che ti lodano.
Svolgendo questa divina e  benedetta festa della Madre di Dio,  voi che avete ragione  del divino,venite battiamo le mani, rendendo Gloria a Dio che da lei è stato partorito.
I avendo ragione del divino non adorarono il creato  piuttosto del Creatore, ma calpestata coraggio-samente la minaccia del fuoco, gioiosi cantavano: il sempre lodato, dei padri Signore e Dio, benedetto è.
Lodiamo, benediciamo, e adoriamo il Signore.
 Ha salvato nella fornace i fanciulli puri , Il parto della Theotoco, allora preannunciato, ma ora  si è realizzato, l’universo tutto si innalza e salmeggia; Lodate le opere del Signore, e innalzatelo per tutti i secoli.
Ogni uomo della terra esulta nello spirito, portando la sua fiaccola; sia in giubilo il popolo degli intelletti incorporei, magnificando i sacri prodigi della Madre di Dio, e acclami: Gioisci beatissima, Theotoco  pura e  sempre vergine

Padre Paisio di Monte Athos






La vita di padre Paisio
Padre Paisio, nel mondo Arsenio Eznepidis, da Farassa di Capadocia (Asia Minore), nacque il 25 luglio del 1924, nel giorno di S. Anna.
Suo padre si chiamava Prodromos. Era l'intendente di Farassa e nutriva amore e venerazione per sant’Arsenio. Per questa venerazione annotava in un quaderno qualunque miracolo che vedeva o ascoltava sul santo come aiuto spirituale per se stesso e per la sua famiglia.
La madre di padre Paisio si chiamava Eulampia, proveniva da una famiglia di nove fratelli e sorelle.
La comunita greca e cristiana dei Farassioti si trovo obbligata a partire per la Grecia, destino che accomuno diverse altre comunita. Il 7 agosto di 1924, una settimana prima della partenza dei Farrassioti, sant’Arsenio di Capadocia battezzo tutti i bambini che non erano ancora stati battezzati. Prodromos Eznepidis porto, anche lui, a battezzare suo figlio. Comincio il Sacramento, e nel momento di dare il nome al bambino, Prodromos nomino quello del nonno, Cristo, secondo la tradizione per cui al primo maschio di una famiglia veniva dato il nome del nono paterno. Il geron Arsenio pero non fu d’accordo, poiche desiderava dare il suo nome a quel bambino. Dirigendosi alla madrina, disse: “Chiamalo Arsenio!”
San Arsenio, possedendo il dono della chiaroveggenza, aveva sentito la vocazione dal bambino che dal seno di sua madre era destinato ad essere uno degli eletti dello Spirito Santo. Cinque settimane dopo il battesimo del piccolo Arsenio, il 14 settembre del 1924, secondo il vecchio calendario, nel giorno dell’Esaltazione della Croce, dopo una traversata difficile, l'imbarcazione dei fuggitivi si avvicino al porto greco san Giorgio del Pireo. Dovettero aspettare 3 settimane in quarantena e dopo proseguirono per l’isola di Corfu, e si stabilirono nel paese di Castra. .
Sant’Arsenio, come aveva profetizzato, visse 40 giorni in quel isola, ed il 10 di novembre del 1924, secondo il nuovo calendario, all’eta di 83 ani, mori lasciando un degno erede dei suoi beni spirituali, un nuovo Arsenio, il futuro geron Paisio.
Il piccolo Arsenio cresceva e possedeva un grande amore per Cristo e per la Madre di Dio, nutriva anche il desiderio di farsi monaco. I suoi genitori gli rispondevano che solo quando gli sarebbe cresciuta la barba, gli avrebbero permesso di coronare il suo desiderio.
Gli piaceva anche andare nel bosco a pregare con una croce che si era fatto egli stesso.
Nel paese di Koniza in Epiro fini la scuola primaria. Arsenio divento un esperto falegname, come nostro Signore. Un esempio che dimostra la bonta della sua anima e questo essendo falegname, se gli toccava di costruire una bara, la faceva gratis, compatendo la famiglia e partecipando al loro dolore.
Nel 1945 Arsenio fu chiamato nell’esercito, dove si distinse per valore e per virtu.
Chiedeva sempre di essere inviato nelle missioni piu pericolose, preferendo, trovarsi in pericolo lui piuttosto che uomini sposati con figli. Diceva: "Hanno moglie e bambini piccoli che li aspettano, io, sono libero”.
Dopo il servizio militare, Arsenio ando sul Monte Athos, deciso a condurre una vita monastica. .
Per alcuni mesi visse nel Giardino della Madre di Dio, come e chiamata la Sacra Montagna del Athos, ma il pensiero che le sue sorelle non erano sistemate non lo abbandonava. Cosi, decise di ritornare al mondo per il periodo necessario e dopo un anno, nel 1950, torno di nuovo sul Monte Athos.
La prima notte la passo come ospite nella skiti di san Giovanni il Teologo che si trova nelle vicinanze di Karies. In seguito si diresse al monastero di san Pantaleone, dove si trovava un virtuoso confessore, il padre Cirillo, asceta, originario della citta di Arginio. Padre Cirillo lo invio al monastero" Esfigmenos “, era il 1950.
Al geron Paisio gli piaceva studiare la vita dei Santi, il Patericon e i consigli di Abba Isaac, del quale non si separava mai, e durante il sonno li teneva sotto il cuscino. Quando il giovane Arsenio finiva la sua dovuta obbedienza, non andava a riposare in cella, anzi aiutava gli altri fratelli a finire i loro lavori, poiche non si sentiva capace di riposare mentre gli altri lavoravano fino tardi. Tentava sempre di aiutare i deboli e i malati. Amava tutti i padri, non facendo differenza, ubbidiva a tutti umilmente, e si considerava ultimo di tutti.
Arsenio non dava valore al suo pensiero, bensi umilmente, senza volonta propria alcuna, domandava tutto al suo confessore, pregando Dio che l’illuminasse per poter insegnare secondo la volonta Divina.
Viveva permanentemente nell’amore a Dio, originato nella gratitudine per tutte le Sue elargizioni. Il suo unico fine e desiderio era di corrispondere, anche in misura misera, alle beneficenze Divine.
Il giovane Arsenio considerava, come unica causa di tutte le cose buone, la Grazia Divina, e di tutte le cose brutte, per profonda umilta, metteva come causa se stesso.
Per esempio, se vedeva un fratello caduto in peccato, o non pentito, o con fede vacillante, diceva fra se: ” La colpa di questo e mia, perche se io facessi tutto quello che ordina Cristo, Dio ascolterebbe la mia supplica, e mio fratello non si troverebbe in questo stato, dove rimane a causa della mia crudelta.”. Cosi pensava e prendeva come propri i problemi dei fratelli pregando Dio, senza interruzione, affinche aiutasse tutto il mondo, secondo il Suo volere.
E Dio, che promise di ascoltare gli umili, ascoltava sempre le preghiere di Arsenio che uscivano dal suo cuore, riscaldato con la pieta e l’umilta.
Piaceva molto ad Arsenio visitare i grandi maestri spirituali e i padri, portatori dello Spirito, per ricevere la loro benedizione ed ascoltare i loro consigli spirituali. Tutto quello che sentiva da questi" bei fiori" del giardino della Madre di Dio, la sua anima pura lo prendeva senza vacillare ne dubitare. Credeva con semplicita di cuore ai consigli dei suoi padri spirituali e non sottometteva mai questi consigli al suo proprio giudizio, ma li realizzava con pienezza di fede, dicendo che verificare la cosa spirituale era come tentare di afferrare l'aria con le mani.
Nell' eta giovanile si sottomise a molti padri, e come un'ape raccolse il nettare spirituale per poi produrre il miele spirituale che alimento molti bisognosi di guarire dalle loro passioni. Nel 1954 egli si sposto al sacro monastero di " Filotheou " e si sottomise al geron Simeon. Nel 1956 padre Simeon lo chirotono con la piccola" skima " monacale e gli impose il nome di Paisio, in onore del metropolita di Cesarea, Paisio II, col quale era conterraneo di Farassa di Capadocia.
Nel monastero di " Filotheou ", padre Paisio segui lo stesso modo di vivere del monastero di Esfigmenos. Esercitava l'amore per il prossimo ed aiutava i fratelli con tutte le sue forze. Il seguente fatto ci indica la sua anima buona e il suo preoccuparsi per il prossimo : uno dei fratelli caduto in un gran peccato aveva vergogna di confessarsi. In conseguenza si rinchiuse in se stesso e, disperato, nutriva l'idea del suicidio. Padre Paisio, che stava attento per aiutarlo, essendo da soli, comincio a raccontare che aveva diversi peccati e tra questi nomino il peccato del fratello caduto, ricordando che l’unico rimedio era il pentimento e la confessione. Sfortunatamente, questo fratello non aveva pensieri buoni, ed ascoltando le parole del geron, esse non furono per lui di aiuto, e non seppe diresse la sua anima alla confessione, ma comincio a diffondere la voce tra i monasteri che Paisio non meritava rispetto ed amore e che aveva molti peccati. Naturalmente, padre Paisio non si giustifico. Ma i padri compresero in questo un atto di pienezza d’amore e loro stessi lo giustificarono e lo elogiarono.
Non chiedeva niente a Dio, poiche capiva bene che il Signore, attraverso il santo battesimo gli aveva concesso gia la grazia dello Spirito Divino. Per quel motivo non aveva invidia dei doni elargiti agli altri padri. In quel modo purificava la sua anima, togliendo ogni pensiero malizioso e tentando di avere solo buoni pensieri. Chiunque poteva notare come, senza sforzo e per la Grazia che aveva, allontanava dalla sua anima pensieri cattivi anche in circostanze avverse come nel seguente esempio: in un monastero un fratello raccontava ai pellegrini cose che si potevano considerare scandalose. I pellegrini che l'ascoltarono si tentarono ed una volta domandarono a padre Paisio: “In tale monastero un fratello dice tali e tali cose. Che c'e ?"
Padre Paisio rispose loro senza esitazione: “guardatevi in voi stessi e non giudicate. Questo fratello e venerabile, ma quando nel monastero ci sono visite, simula essere"ignorante" per ricevere la ricompensa Divina.”. Cosi i pellegrini si calmarono.
Quando si trovava nel monastero di Filotheou in visita dal padre Cirillo gli chiedeva consigli in distinte occasioni. Il padre Cirillo, per la grazia di Dio, l'aiutava in tutto, e spesso risolveva i problemi di padre Paisio, prima che glieli avesse detti.
Nel 1966 padre Paisio cadde malato e fu internato per molti mesi nell'ospedale "Papanicolau" dove gli tolsero parte dei polmoni.
L'Isicastirio di san Giovanni il Teologo
La Provvidenza Divina aiuto padre Paisio a conoscesse le sorelle del sacro monastero di s. Giovanni il Teologo in Suroti, a circa 20 km. da Salonicco in Macedonia. Nel periodo della malattia di padre Paisio, nel 1966, il sacerdote del tempio di santa Sofia in Salonicco , padre Policarpo Madzaroglu, sapendo dell’anziano malato, quando ricoverarono quest’ultimo in ospedale per operarlo, chiese alle sorelle che si trovavano sotto la sua direzione spirituale di aiutare lo Geron in tutto quello che necessitava durante la sua permanenza in ospedale.
Nel monastero " Stavronikita" il padre Paisio arrivo nel 1968.
Nella cella della Santa Croce, non lontana da" Stavronikita," era confessore il papa Tikhon, nato in Russia nel 1884. .Aveva molti doni spirituali e compiva grandi imprese monastiche. Il padre Paisio andava spesso da lui per chiedergli consigli, ed aiutarlo nella Divina Liturgia come cantore. Molte volte il servizio si interrompeva perche padre Tikhon entrava in trans di contemplazione spirituale che poteva durare fino a mezz'ora. In questo periodo il padre Tikhon chirotono padre Paisio nel grande skima monastico. Dieci giorni prima di morire, il padre Tikhon chiese al padre Paisio di aiutarlo nelle sue ultime ore. L’anziano servi il moribondo con grande spirito di carita, offrendo tutto l'aiuto che egli necessitava.
La malattia di padre Paisio
Il problema serio con la salute di padre Paisio comincio nel 1969. Soffriva di una malattia respiratoria con febbre alta, forte tosse con secrezioni che lo debilitarono molto. I medici fecero una diagnosi sbagliata; la presenza di tubercolosi. Necessariamente il padre Paisio dovette cosi prendere, molti rimedi contro la tubercolosi, i quali lo debilitarono molto per le sue reazioni collaterali.
Per le continue visite di pellegrini, con il loro carico di angosce e problemi, il Padre si stancava molto ed il preoccuparsi per loro l'esauriva. Inoltre egli lasciava pochissimo tempo per il suo riposo notturno, poiche pregava anche di notte.
Padre Paisio imparo a fare alcune piccole immagini metalliche che egli stesso ritagliava. Queste icone, Crocifissi, la Vergine, san Arsenio di Capadocia, li distribuiva come" benedizione" tra i pellegrini. Questo lavoro aggravava la sua situazione di salute stancandolo molto.
Ebbe anche un ernia addominale e nonostante il dolore viveva con pazienza questa infermita.
Anche in questo stato di salute, durante le sue visite all’eremo di san Giovanni restava fermo per molte ore, mentre dava la benedizione alla gente. Diventava pallido e sudava dal dolore, ma non si sedeva mai mentre passava la fila quasi infinita di fedeli.
Intorno al 1988 sorse un'altra difficolta all'intestino di padre Paisio, con forti diarree che nonostante il trattamento prescritto dai medici, non cessavano.
Il padre sospetto allora che qualcosa di quello che usava tutti i giorni gli facesse male, probabilmente l'acqua. Ando ad ispezionare la fonte d’acqua, quella che tirava fuori con una canna, ed osservo che la fonte era molto sporca. La ripuli e le diarree cessarono.
Dopo un tempo apparve una lieve emorragia nel retto, la quale aumentava. Nonostante le indicazioni dei medici, egli non voleva fare gli esami I medici, senza analisi, supponevano che si trattasse di colite, o emorroidi, o un tumore canceroso. Proponevano diverse cose e davano differenti consigli, ai quali il padre non dava attenzione, poiche sapeva per esperienza che tutti i rimedi avevano effetti secondari. Diceva: “non disprezzo le medicine, ma non le prendo, perche coi rimedi copriamo un buco e ne apriamo un altro, cosi non si finisce mai. Cristo vede il mio stato e se lo volesse guarirei, se questo fosse bene per noi. Nell’intestino c'e un tumore: allora sara meglio non toccarlo per non peggiorare questo stato. Tutto il mondo soffre di tre cose: cancro, malattie e divorzi. Ogni settimana ricevo molte lettere dove mi scrivono su questi problemi. Disordini seri non ne ho,” diceva sorridendo, “neanche ho qualcosa a che fare con divorzi e distribuzione di beni, allora per lo meno ho il cancro, affinche il mondo si consoli. Quando qualcuno ha il cancro o grandi problemi, e nonostante cio non si preoccupa per se stesso, bensi chiede a Dio per gli altri, Dio si commuove! Cosi, in ogni caso, l'uomo ha l'opportunita di dire a Cristo: “io non mi interesso di me stesso e non chiedo niente, ma ti prego aiuta agli altri." E Dio aiuta. Per questo motivo, padre mio, non ti preoccupare molto per me”.
In questo stesso periodo della Grande Quaresima del 1993, avendo frequenti emorragie, la sua emoglobina era molto bassa e sveniva frequentemente. Ma non si scoraggiava. Alla malattia contrapponeva molta pazienza, e sopportazione
Nella meta di aprile l'operarono per ricostruire il retto. Dopo alcuni giorni la tomografia dimostro che le metastasi si era estesa al fegato e ai polmoni.
I medici avvisarono che la prognosi era funesta e che avrebbe vissuto ancora quattro mesi. Ascoltando cio, padre Paisio disse sorridendo: “Bene, non saro morto prima? Devo aspettare cosi tanti mesi?"
Padre Paisio era deciso fermamente di ritornare al Monte Athos ed il giorno 13 di giugno, preparo tutto per viaggio, ma gli sali la febbre, e dovette posporre il viaggio. Lo stato della sua salute peggiorava continuamente. I medici avvisarono che gli rimanevano 2-3 settimane di vita. Il padre accetto di ricevere visitatori ed incomincio a prepararsi per il gran viaggio. Il 11 Luglio, il giorno di santa Eufemia, il padre Paisio si comunico per ultima volta, in ginocchio di fianco al letto. Le ultimi 24 ore fu molto tranquillo, benche soffrisse molto, ma con rassegnazione sopportava tutto.
La notte tra il lunedi 11 ed il martedi 12 luglio fu un martirio per l’anziano monaco. Cominciarono ad infiammarsi le sue estremita e diventare cianotiche, gli mancava la respirazione, ma il cuore lavorava ancora bene. Alla mattina si abbasso la pressione arteriosa e la respirazione si fece molto lenta. Divenne chiaro che la fine si avvicinava. Vennero le sorelle dal convento per ricevere l'ultima benedizione. Il martedi 12 Luglio consegno la sua anima beata, umilmente, con calma al Signore che amava.
Padre Paisio fu seppellito nel monastero di san Giovanni il Teologo in Suroti.
Padre Paisio insegnava:

La tua meta che sia la purificazione dell'anima e la totale sottomissione della mente alla Grazia Divina. Per questo, prega sempre, impara ed umilmente recita la preghiera di Gesu.
Se agisci cosi, a tempo debito arrivera la grazia di Cristo. Prega affinche in qualche modo possa dimostrare al nostro Cristo amore ed umilta poiche solo con questo egli concede la sua grazia. Bisogna tentare di assomigliargli nei nostri pensieri ed atti. Senza questo, saranno inutili genuflessioni, rosari e digiuni.
Per l'illuminazione dell'anima leggi tutti i giorni il Nuovo Testamento.
Preoccupati ogni giorno di purificare la tua anima.
Aspira verso la verita Divina e non alla logica, basata su argomenti mentali, poiche, solo nella verita Divina viene la grazia di Cristo.
In tutto quello che ti proponi di fare rifletti in primo luogo, se lo vuole Cristo, e cosi agisci secondo la volonta del Signore.
La tua parola che sia"si" se si, e"no" se e no.
Preoccupati sempre di fare il bene al tuo prossimo, e non a te stesso.
Non guardare quello che fanno gli altri, e non li sottomettere a prove, per non condannare.
Non secondo la giustizia umana ma secondo quella Divina.
Alla domanda che cosa sia la giustizia Divina, il padre Paisio rispose coi seguenti esempi.
"Diciamo, che due persone sono a tavola e stanno mangiando. Hanno a disposizione un piatto con dieci frutti. Se uno dei commensali per gola ne mangia sette e lascia all'altro tre, e ingiustizia. Se quello dice: guarda, siamo due, ci sono dieci frutti. Ad ognuno corrispondono cinque. Mangero cinque, e gli altri cinque li lascero per l'altro agisce in forma giusta , cioe, secondo la giustizia umana. Per difendere i suoi diritti umani, la gente molte volte prende avvocati e giudica gli altri.
Invece, se l'uomo vede che all'altro piacciono i frutti, simulando che non gli piacciono, mangera uno o due, e dira all'amico" Fratello, mangia i restanti, poiche non mi piacciono troppo",in questo caso agisce secondo la giustizia Divina.
Racconto un altro esempio per migliore comprensione di quello che e la giustizia Divina: supponiamo che venga un fratello e mi dice: “Gheronta, questa cella e mia”! Per questo motivo gliela lascero e mi mettero a cercare un'altra se mi oriento con la giustizia Divina, arrivando anche a ringraziarlo umilmente per avermi permesso di vivere nella sua cella. Invece, se agisco secondo la giustizia umana, non accettero le sue richieste, comincero a discutere a irritarmi ed insultare, arrivando a dimostrare in un giudizio che ho ragione e che la cella era mia .
Un cristiano vero non deve ne giudicare, ne arrabbiarsi, ne litigare con altri, anche se lo spoglino dei suoi beni. Poiche esiste solo una differenza tra veri cristiani e i non credenti: i cristiani seguono la legge della giustizia Divina con umilta e cedono, mentre i non credenti seguono la giustizia umana, basata nell'amore proprio.
La giustizia umana ha poco valore davanti alla giustizia Divina.
Nostro Signore. Gesu Cristo fu il primo che realizzo la giustizia Divina. Quando l'accusavano, non si giustificava e quando gli sputavano, non protestava, quando lo martirizzavano, non minacciava, tutto sopportava con pazienza, silenziosamente. Egli non si difese quando gli tolsero i suoi vestiti e l'appesero senza vesti sulla croce davanti alla moltitudine. Ed in questo esempio di umilta, , non solo non cercava la difesa della legge, bensi giustificava i suoi persecutori davanti al Suo Padre Celeste e pregava per loro": Padre, perdonali, perche non sanno quello che fanno", Luca 23:34).
Per nostra vergogna, non prendiamo l'esempio del nostro Salvatore, Dio, e non cessiamo di giudicare gli altri ed anche a discutere per qualunque piccolezza. Il risultato che la nostra" giustizia umana porta ad un gran errore. Se noi, lasciando da parte la preghiera e la purificazione del cuore, cominciamo a conversare con la gente, portarla nei tribunali, si vedra chiaramente che gli oggetti sono piu importanti della nostra propria salvezza. Quello che e piu orribile ancora, e che li mettiamo al di sopra dello stesso comandamento di Cristo, (Luca 6:26-29).
Concludendo la sua spiegazione, il padre Paisio diceva: come il fieno ed il fuoco non possono stare insieme, cosi non possono trovarsi contemporaneamente nell'anima le due giustizie distinte: la Divina e l'umana. Quello che crede nella giustizia Divina, non si offusca quando l'offendono e non cerca giustificazione in caso che fosse condannata, ma riceve le false accuse, come se fossero vere, non si preoccupa di convincere i calunniatori, ma ancora gli chiede perdono. 



5/18/2011

Miracolo Ortodosso

La Icona della Madre di Dio e uscita su un albero talgliato....

San Simeone lo Stilita Vita, Morte, Miracoli


"Il famoso Simeone, meraviglia dell'umanità, tutti i sudditi dell'Impero romano, lo conoscono; ma è celebre anche tra i Persiani, i Medi e gli Etiopi e la sua fama si è diffusa fino ai nomadi della Scizia ai quali ha fatto conoscere il suo amore per la penitenza e la sapienza". Ecco le parole con le quali Teodoreto apre la biografia del primo stilita. E in realtà, la vita di questo anacoreta supera in fatto di meraviglioso e sovrumano quella di tutti i monaci di Palestina, Siria e Mesopotamia.
Era nato a Sissa ai confini dell'Antiochena e della Cilicia, da una famiglia di pastori d'armenti. Un giorno -aveva undici anni- udì leggere in chiesa il Vangelo delle Beatitudini e la sua fede si infiammò. Beati non erano quelli che il mondo proclamava tali, erano i poveri, i cuori puri, gli afflitti, i sofferenti. Andò a trovare un sacerdote: <<Come posso realizzare questa benedizione?>>. <<Concludendo - gli rispose questi - vita eremitica.>> <<Ma dove?>> il povero giovane ignorava tutto delle pratiche ascetiche e delle fondazioni monastiche. Si precipitò in una cappella vicina dedicata ai santi martiri, si prosternò fino a terra, e supplicò il cielo di mostragli la via. In quella posizione, s'addormentò ed ebbe un sogno: si vedeva, con una pala in mano, a scavare, scavare, scavare; e ogni volta che si fermava, una voce gli diceva :<<Scava ancora!>>. E lui si accaniva ad obbedire. Fino a che la voce proclamò: <<Basta! Adesso potrai edificare senza difficoltà>>. Trovò non lontano di lì un gruppo di asceti e si mise alla loro scuola.
Per due anni, ne ascoltò i consigli e ne imitò le usanze. Erano quelle indubbiamente, le fondamenta che doveva scavare. Si sentì abbastanza forte, da sottoporsi alla regola più severa; gli fu indicata Teleda.
 Non chiese l'ammissione alla casa madre, costruita da Ammiano, ma ad una filiale costruita da Eusebona e Abibion, governata all'epoca dal loro successore, Eliodoro, uomo stimato per santità e che aveva già trascorso sessantadue anni in quel monastero senza uscirne. Lo accolsero forse con un po' di diffidenza, da quel principiante che era, il quale avrebbe tuttavia superato gli ottanta anacoreti colà riuniti. Le cose non procedettero senza mormorazioni e perfino qualche scontro: Simeone, non essendo in cenobio sottoposto a una regola, ma libero di disporre di sé secondo il proprio giudizio, si dava a pratiche fino a quel momento sconosciute. Quando i più valorosi digiunavano tre giorni, quel giovane di quattordici o quindici anni trascorreva una settimana senza prendere una briciola di pane. E poi fu la volta di due settimane, e ben presto di tre. Trovò un sistema eccellente per non imporre la propria presenza ai fratelli che mormoravano: scavò in fondo all'orto una fossa grande abbastanza da contenere il suo corpo e passò due anni in quella strana cella, esposto a tutte le intemperie. Infine, una delegazione di fratelli andò a trovare Eliodoro, pregandolo di espellere quell'originale che nuoceva alla pace comune. L'abate, che ammirava l'asceta, accetto con un sospiro di dispiacere e comunicò all'interessato.
Sembra che per mitigare la severità di una tale misura l'abate si limitasse ad allontanare Simeone. Questi si ritirò nella foresta vicino al monastero, continuando ad abbandonarsi alle sue mortificazioni. Un monaco che passava di lì avanzò verso di lui con l'intenzione malvagia di muovergli dei rimproveri: cadde a terra come fulminato e uscì da quello stato comatoso soltanto cinque giorni più tardi, quando Simeone ebbe ingiunto ai fratelli di buttargli dell'acqua addosso. Quel miracolo lasciò i suoi oppositori enormemente stupiti. Essi accettarono pertanto che il perturbatore riprendesse il proprio posto nella cinta del monastero. Egli però non si fece più vedere. Fu un fratello incaricato del servizio della legna a dare l'allarme un mese dopo: aveva intravisto Simeone all'interno di una profonda caverna nascosta dalla riserva di legna. Eliodoro andò ad invitarlo a riunirsi alla comunità: era domenica e lui si affrettò, tutto felice di partecipare ai santi Misteri. Ma un altro incidente pose nuovamente il problema della sua presenza. Fratel Simeone puzzava sempre di più, al punto che ogni volta che compariva tra gli altri questi ne provavano nausea. Questi non era una conseguenza della sporcizia, perché in proposito i monaci siriani si equivalevano tutti. Doveva essere qualcosa di eccezionale a indurre quegli esseri rozzi, usi agli odori più nauseabondi a lamentarsi con orrore. Eliodoro convocò il monaco importuno. Era vero: appena Simeone fu in sua presenza, l'abate si sentì soffocare. Gli ordinò di togliersi la tonaca: era incollata alla pelle e la pelle cominciava ad andare in putrefazione. Si dovette chiamare il fratello infermiere, il quale distaccò pazientemente l'abito con olio e acqua calda. Allora, la spiegazione fu chiara: una corda di palmizio era arrotolata attorno ai fianchi di Simeone così strettamente da penetrare nella carne, che stillava sangue e brulicava di vermi. Fu necessario chiamare un medico, che dovette tagliare nel vivo per togliere lo strumento del supplizio. E l'operazione causò a Simeone dolori tali che lo si credette sul punto di morire.
Se la cavò con cinquanta giorni di infermeria.
 Appena fu in piedi, chiese il permesso di assentarsi: gli fu dato sollecitamente. Andò a seppellirsi per due settimane in un sepolcro. Ma non era abbastanza terribile. Aveva udito parlare di una caverna spaventosa, in cui nessuno aveva mai osato avventurarsi: stupendo posto per una quaresima! Vi si infilò tranquillamente con la sola arma del seguo della croce e con la sola luce delle grazie d'orazione. La cosa si riseppe, se ne ebbe paura: l'abate, sempre premuroso verso l'enfant terrible, inviò una squadra di monaci con torce. Una processione di fiaccole si mosse quindi nelle sinuosità dell'antro maledetto fin quando non trovò il fuggitivo assorto nella preghiera.
Decisamente un simile esaltato, sia pure Santo, sia pure taumaturgo, non era fatto per vivere in società. Una nuova delegazione andò a trovare Eliodoro. I monaci non si erano precisamente recati a Teleda per trattenere con loro Simeone, per andare alla ricerca di Simeone, per tremare ai pericoli incorsi da Simeone, per strappare Simeone alla morte. L'abate, consapevole del duplice ruolo di custode della regola e di padre delle pecorelle eccentriche, chiese loro di pazientare ancora un anno. Infondo, era persuaso che quell'essere straordinario era una benedizione per la casa e che solo l'imperfezione dei monaci, se non addirittura la gelosia, s'opponeva la sua presenza. Ma in capo ad un anno, l'umore degli oppositori non era cambiato, Eliodoro allora convocò l'irrequieto di Dio: era tempo per lui di congedarsi per sempre. Gli offrì del denaro che il giovane rifiutò all'istante: bastava la benedizione del padre.
Simeone si ritrovò solo. Aveva trascorso dieci anni nel ritiro di Teleda. Aveva scavato abbastanza in profondità per gettare le basi del suo edificio? Si inginocchiò rivolto ad oriente: <<Mio Signore e mio Dio, mia forza e mio sostegno, ti scongiuro: guidami al luogo in cui vuoi che io ti serva.>> Camminò verso nord superò la montagna di Corifè e arrivò a Telanissos, l'attuale Deir Serman, dove trovò per caso un luogo disabitato, una cella bella e pronta, probabilmente abbandonata da un altro eremita.
 Comunque, quel ritiro era noto, perché poco tempo dopo esservi sistemato, udì bussare alla porta un personaggio importate, il sacerdote Basso, corepiscopo, cioè associato ad un vescovo (indubbiamente, in questo caso, quello di Antiochia) e visitatore dei monaci della regione. Aveva fondato lui stesso non lontano di lì, quel luogo che oggi è Batabu, un monastero di duecento monaci, rinomato per lo spirito di povertà e per la disciplina della sua regola.
Vedendo in quel prelato l'inviato della Chiesa, e quindi di Dio, Simeone gli apri la propria anima. Il visitatore, a sua volta, provò una certa perplessità davanti a quell'uomo di Dio a un tempo profondamente soprannaturale e insufficientemente equilibrato. Quando giunse la quaresima, Simeone gli chiese di murare la porta della cella con il fango, ma l'altro non volle acconsentire. Allora, il solitario trovò il mezzo di ottenere l'approvazione: avrebbe collocato nella cella un orcio d'acqua e dieci piccoli pani, quanto bastava per vivere fino a Pasqua. Basso murò la porta e riprese la sua strada. Tornò dopo quaranta giorni, bussò, ma non ebbe risposta. Tolse allora il fango secco ed entrò: Simeone era steso a terra privo di conoscenza, i viveri erano intatti: dieci pani e l'orcio ancora pieno d'acqua. Il sacerdote inumidì il volto di Simeone, gli bagnò le labbra, lo confortò e gli amministrò la santa Eucaristia. L'anno successivo, Simeone tornò alla carica: volle fare il digiuno quaresimale integralmente e vi riuscì: questa volta il corpo era domato.
 Dopo tre anni vissuti fra quelle quattro mura, il solitario, che aveva goduto di numerosi momenti per rimuginare progetti fantastici, fece bagaglio (il che richiese ben poco tempo) e si avviò ancora verso il nord. Sì, ormai aveva scavato quanto bastava a porre le fondamenta. Si fermò davanti alla montagna che oggi è chiamata Qaalat Seman e vi sali sopra.
Dalla vetta piatta si distingueva tutta la regione. L'asceta però non cercava un panorama, bensì un posto sperduto in cui nessuno transitasse e in cui potesse starsene solo a pregare al cospetto del cielo. Preso possesso del luogo innalzò una cinta di pietre a secco. Si procurò una catena di ferro di venti cubiti e ne fissò un'estremità a una roccia e l'altra alla caviglia: era prigioniero per propria decisione. Tuttavia, osserva Teodoreto, la catena di ferro non impediva di volare al suo pensiero. Ma ecco che un altro corepiscopo, di nome Melezio, (forse era successo a Basso, oppure ne condivideva la missione) si presentò all'ingresso della cinta. È supponibile che Simeone, il quale aveva ricevuto la vestizione monastica in nome della Chiesa e pertanto si trovava sotto la sua giurisdizione, avesse segnalato alle autorità episcopali il cambiamento di domicilio; e se dobbiamo ammirare lo spirito ecclesiale dell'anacoreta, dobbiamo anche ammirare il coraggio con cui il visitatore si recava a trovare le pecorelle in qualunque luogo fossero andate a pascolare. La fantasia del giovane monaco non piacque al prelato: andò alla ricerca di un fabbro (non ci viene detto quanto tempo i superiori di Simeone siano stati impegnati a occuparsi della sua anima e del suo corpo) e fece liberare l'eremita dalla catena: sotto il pezzo di cuoio che impediva all'anello di ferro di ferire la caviglia, trovò venti grosse cimici che succhiavano il sangue del martire volontario.
 Evidentemente, il fabbro non tenne la bocca chiusa. Gli abitanti della pianura e della montagna intrapresero l'ascesa del monte per andare ad ammirare il santo e chiedergli miracoli. Dio, che vedeva soltanto l'amore del suo servo e non gli errori e le sconsideratezze, gli diede il potere di esaudire quella povera gente. La notizia dei miracoli moltiplicò l'affluenza. Simeone, assediato nella sua solitudine, non cercò un altro luogo appartato come avevano fatto altri prima di lui. Nella sua ingenuità, per sottrarsi agli ammiratori che lo incalzavano, lo toccavano, gli s'inginocchiavano davanti, non trovò altro sistema se non quello di edificare una colonna di pietra e salirvi sopra. E poiché gli importuni gli apparivano sempre troppo vicini, si ritenne in dovere di innalzare sempre di più la colonna, che dai sei cubiti iniziali salì progressivamente a dodici, a ventidue, a trentasei e infine a quaranta cubiti: diciassette metri! Alta abbastanza da contemplare la folla come dal sesto piano di un immobile moderno.
Perché la folla affluiva da ogni parte, Teodoreto racconta che veniva non solo dall'Armenia e dalla Persia, ma anche dalla Gallia, dalla Spagna e dalla Bretagna. E non per essere spettatori di una vana curiosità, quasi si trattasse di un trapezista o di un equilibrista, ma proprio per edificarsi alla vista di un uomo di Dio. Perché Simeone s'era fissato come programma l'adorazione, la preghiera, la contemplazione, l'esortazione della gente. E lo realizzava a meraviglia, spesso rapito in spirito dal suo Creatore, chinandosi profondamente al cospetto della maestà divina, rimanendo per ore intere nello stato di stupore prodotto in lui dagli abissi della Santissima Trinità.
 Anche in quella situazione che per chiunque altro sarebbe divenuta insostenibile in capo a un'ora, aveva conservato il ritmo della vita monastica: preghiera per la maggior parte della notte, poi qualche momento di sonno, (col petto chinato verso il vuoto) di nuovo preghiera fino all'ora nona, esortazioni alla folla, regolamento di liti, consigli per ciascuno fino al tramonto del sole.
Allora congedava la gente dopo averle dato la sua benedizione.
Se la preghiera incessante di quell'uomo inchiodato sul posto per propria volontà era motivo di edificazione, il miracolo della sua ininterrotta immobilità era un motivo di stupore che la fede di quanti vi assistevano trasformava in azione di grazie. Ognuna delle colonne successive misurava un cubito di diametro (50 centimetri circa): tale da costringere a restare fisso nella posizione eretta, senza nemmeno poter fare un passo in avanti o all'indietro. Ora, quel contemplativo, senza dubitare una sola volta della potenza e della misericordia di Dio che gli permettevano di non cadere mai, né di giorno né di notte, dormisse o fosse sveglio, si tenesse dritto o si chinasse per le numerose prosternazioni, (un compagno di Teodoreto ne contò milleduecentoquarantaquattro in un solo giorno) restò in piedi, a gloria di Dio e a meraviglia degli uomini, per trentasette anni di seguito. Non era una favola o un imbroglio. Milioni di individui lo videro: in ragione di tremila al giorno (è la stima minima), è precisamente di milioni che bisogna parlare. E quello spettacolo non si presentò nell'illusione collettiva di un istante, ma per anni, giorno dopo giorno. Testimoni accorti, degni di fede e dallo spirito critico, alcuni dei quali accusarono Simeone di orgogliosa e inutile originalità, constatarono quel fenomeno, inaudito e continuo.
Ma non era quella la sorgente più profonda e più pura della carità che trasformava tanti spettatori. Se molti cambiarono vita per aver avvicinato un istante Simeone lo Stilita, se molti sentirono il proprio cuore sciogliersi di compunzione, fu perché Simeone lo Stilita era un'ostia vivente: offriva ogni giorno la sua ininterrotta passione al Dio che contro tutte le leggi della natura lo conservava in vita per la redenzione degli uomini. Perché il potere soprannaturale che lo manteneva in piedi non gli garantiva la salute, e se un continuo miracolo non gli permetteva di morire per la lenta distruzione dell'organismo, non per questo gli era tolta la sofferenza che ne risultava. Via via che gli anni d'immobilità si sommavano, i piedi si gonfiavano e si piagavano, la carne delle gambe cadeva a brandelli e marciva al sole, la pelle del ventre si fendeva e lasciava intravedere le viscere, le vertebre sconnesse sporgevano fuori dalla schiena e foravano la tonaca, dalla testa ai piedi egli non era più che un ammasso di organi sanguinanti e scompaginati. Ma continuava a rimanere ritto: offriva il suo martirio e contemplava la Bellezza divina. L'unione fisica alle sofferenze di Gesù crocifisso, che avverrà più tardi con le cinque piaghe delle mani, dei piedi e del costato, si manifestava in Simeone in tutto il corpo, com'era accaduto per il corpo di Cristo quale era apparso alla folla di Gerusalemme il venerdì santo all'ora nona.
 Tutte quelle torture fisiche, alle quali si accompagnava una dolce pace spirituale, erano conosciute solo dagli intimi. Ma gli intimi, nel corso degli anni, divennero sempre più numerosi e finirono per raccontare in giro, meravigliati, quel che sapevano. Fu però una circostanza particolare a mettere sotto gli occhi di tutti la miseria dell'uomo e la protezione di cui godeva il santo: un'ulcera purulenta si formò in un piede e assunse proporzioni tali che il pus e i vermi cadevano dalla colonna fino a terra. Tutti gli astanti erano sconvolti. Si doveva mettere termine a quella prova? I notabili, i sacerdoti, i vescovi, riuniti ai piedi dell'uomo dei dolori, lo supplicavano di scendere e di concedersi un po' di riposo. L'imperatore Teodosio in persona gli scrisse e gli fece rimettere la lettera da tre vescovi: gli propose di inviargli il suo medico personale per curarlo. Simeone disdegnò ogni preghiera e ogni proposta: <<Sono qui - rispose - per amore di Gesù Cristo. Se è Sua volontà che io muoia, morirò. Se vuole mantenermi invita, è abbastanza potente da farlo. Nell'uno e nell'altro caso, adoro la sua santa volontà>>. Il prete Como, uno dei suoi biografi, paragona in questa circostanza Simeone a Giobbe: il diavolo aveva avuto il permesso di colpirlo, ma non di farlo morire. Quel supplizio durò nove mesi, fino al termine della quaresima; il mercoledì santo, Simeone entrò in un torpore estatico da cui uscì solamente per constatare, con quanti lo circondavano, che i suoi piedi erano divenuti tutt'a un tratto normali. Il patriarca d'Antiochia si recò di persona a portargli la santa Eucaristia, arrampicandosi, per compiere quel gesto, sulla lunga scala che i discepoli avevano costruito per salire a parlare col maestro.
Simeone sapeva in quale anno sarebbe morto: ne era stato avvertito quarant'anni prima da una voce celeste; ma ignorava in quale giorno: la voce aveva semplicemente precisato che sarebbe stato preceduto da un segno celeste. Quando giunse l'anno 460, egli si mise ad aspettare il segno. E allorché un terremoto sconvolse la città di Antiochia, non dubitò che si trattasse di ciò a cui la voce aveva alluso. Per cinquanta giorni, tutta la città di Antiochia, spaventata dal cataclisma e in cerca di un rifugio soprannaturale, si accalcò intorno al santo. Il 29 luglio, cinquanta giorni dopo la prima scossa sismica, si riunirono sotto la colonna tante persone quante non se n'erano mai viste. Ispirato dall'alto, Simeone si rivolse loro così: <<Figli miei, la prova è terminata, tornate nella vostra città. Passate innanzi tutto tre giorni in preghiera e allora la vita riprenderà come prima>>. Ripartirono e lui si preparò a morire.
 Il 29 agosto, sentì all'improvviso che le forze l'abbandonavano.
Il sole si oscurò. Effluvi soavi si sparsero per l'aria. I pellegrini che erano presenti capirono. <<Padre, dacci la tua benedizione!>>, gridarono. Allora, solennemente, Simeone alzò la mano e per tre volte benedisse l'umile popolo di credenti radunato ai suoi piedi. Poi s'appoggiò alla spalla di un discepolo che aspettava quell'istante. Il discepolo lo guardò: il volto era radioso, ma l'anima aveva lasciato la terra. Il patriarca d'Antiochia accorse, seguito dai vescovi, da Ardaburio, comandante in capo dell'esercito imperiale, e da una ventina di alti funzionari dell'Impero. La traslazione del corpo ad Antiochia fu solenne: giaceva su un carro circondato da dignitari ecclesiastici e civili. Una folla che andava facendosi sempre più fitta, accorsa da Antiochia e da altre città, accompagnava il corteo formando con l'esercito uno schieramento d'onore. Dopo le esequie, le spoglie furono provvisoriamente deposte nell'oratorio di Cassiano, poi si diede loro una sepoltura definitiva in una cappella innalzata per l'occasione nel grande santuario intitolato alla Concordia e alla Penitenza.
Nella cinta di Simeone, i fedeli costruirono intorno alla colonna una chiesa e delle celle, perché il ricordo del grande mistico si perpetuasse sul posto. Il monte di Simeone fu chiamato monte di Mandra (dal greco mandra: piccolo monastero).

LE TRE CHIAVI AL TESORO DELLA PREGHIERA INTERIORE



LE TRE CHIAVI
AL TESORO DELLA PREGHIERA INTERIORE
(RINVENUTE TRA LE RICCHEZZE SPIRITUALI DEI SANTI PADRI)
Nel mio cuore custodisco la tua parola1.
Davide
Bisogna che la mente si protenda verso l’alto con ogni mezzo2.
Catafugiota 
"Come la pioggia, quanto più scende abbondante, tanto più impregna la terra, così anche la terra del nostro cuore è plasmata e rallegrata dal nome di Cristo gioiosamente invocato” (Sant’Esichio)

Premessa

Se è vero che ciascuno di noi ha le sue qualità, inclinazioni e capacità, e che lo stesso fine si raggiunge per vie diverse, in modi differenti, che portano tutti all'unica meta, così anche l'acquisizione dell'attività interiore della preghiera si ottiene per mezzo di molte vie, come leggiamo negli insegnamenti dei santi padri. Questi si possono dividere in specifici e generali
Specifici sono per esempio:
l'obbedienza senza riserve, come dice Simeone il Nuovo Teologo3
le fatiche e l'ascesi del corpo, come proclama la chiesa nei suoi inni: "Con le opere, o ispira­to da Dio, hai ottenuto l'accesso alla visione"4
la preghiera esteriore che chiede la preghiera interioreSignore, insegnaci a pregare..."; 
particolari manifestazioni della grazia, come nel caso di Kausokalyba che prostrandosi all'icona della Madre di Dio, improvvisamente sentì scendere nel cuore dol­cezza e tepore 6; o come il giovane Giorgio sul quale, durante una semplice pre­ghiera, all'improvviso discese la luce interiore e l'incessante preghiera che agisce da sola7.
I mezzi generali invece e più essenziali per la preghiera, che per così dire la riguardano direttamente, sono tre, come li troviamo presso i santi padri:
1) l'invocazione frequente del nome di Gesù Cristo;
2) l'attenzione da porre in questa invocazione;
3) la discesa in se stessi, ovvero, come si esprimono i padri della chiesa, la discesa della mente nel cuore, attraverso il re­spiro per le narici.

Siccome questi mezzi ridestano nel modo più rapido e oppor­tuno8 il regno di Dio dentro di noi e permettono di scoprire il tesoro dellapreghiera spirituale interiore, è assolutamente giusto chiamarli chiavi di quest'arca sacrosanta.

Prima chiave

Se la quantità conduce alla qualità, l'invocazione assidua, quasi incessante del nome di Gesù Cristo, anche se all'inizio ancora distratta, può condurre all'attenzione e al tepore del cuore; poiché, come lo stesso nome di Dio contiene in se stesso una tenebra che opera come forza santificante (Giovanni)10, così anche la natura umana è capace di far propria una determina­ta disposizione, attraverso la ripetizione frequente e l'abitudi­ne. "Per imparare a far bene qualsiasi cosa, occorre farla molto spesso", disse uno scrittore spirituale; e sant'Esichio afferma che "l'assiduità genera l'abitudine e si trasforma in natura"11.
Questo, come è evidente dalle osservazioni di coloro che ne hanno la pratica, avviene riguardo alla preghiera inte­riore nel modo seguente. 

Colui che desidera acquisire la pre­ghiera interiore si decide a invocare il nome di Dio spesso, pressoché ininterrottamente, vale a dire pronuncia con le lab­bra la preghiera di Gesù: 
"Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore! ".
Senza turbarsi se all'inizio que­sta invocazione sarà ancora impura a causa dei pensieri e fati­cosa a causa della pigrizia, egli la pronuncerà anzitutto a voce alta; quando poi si sarà affaticata la gola, comincerà a mormo­rarla sottovoce, e solo dopo con il pensiero, come consiglia lo ieromonaco Dorofej12.
Talvolta pronuncia tutte le parole della preghiera, cioè: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!", talvolta anche abbreviata, cioè: "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me", come insegna san Gregorio il Sinaita. Lo stesso aggiunge chel'invocazione abbreviata è più adatta per i principianti, anche se a dire il vero non respinge né l'una né l'altra, consigliando solo di non cambiare di frequente la formula di preghiera, per potersi meglio abituare all'invoca­zione (Dobrotoljubie nella I parte)13.
E per ridestarsi totalmente all'incessante proferimento della preghiera, chi desidera ap­prenderla si pone per regola, secondo il tempo, una determinata quantità di ripetizioni, vale a dire di recitare sul rosario qual­che centinaio o migliaio di preghiere giorno e notte, senza af­frettarsi, ma distintamente, articolando la lingua e le labbra...
Dopo un certo tempo, le labbra e la lingua di chi si esercita fi­niscono per abituarvisi e per così dire acquisiscono un movimento spontaneo, così che senza particolare sforzo si muove­ranno da sole pronunciando il nome di Dio, persino senza voce.
Col tempo, la mente comincerà ad acconsentire a questo movimento della lingua, e gradualmente si purificherà dalla distrazione fino a giungere all'attenzione della preghiera (un pò come i ragazzini imparano le lezioni a scuola, in principio solo con la ripetizione meccanica, ma frequente, della stessa cosa: prima fissano le parole nella memoria, pur senza comprender­ne il senso, poi, col passare del tempo, si rivela loro anche la comprensione di quel che, sia pure in modo inconsapevole, hanno ormai indelebilmente appreso).
Infine, potrà avvenire anche la discesa della mente nel cuore, come si esprimono i santi padri14, ovvero la mente, rivolgendosi nel cuore,lo riscal­da con il calore dell'amore di Dio, e ormai il cuore stesso, senza costrizione, liberamente, con indicibile dolcezza invoche­rà il nome di Gesù Cristo, effondendosi senza interruzione da­vanti a Dio, toccato dalla sua misericordia, come è scritto: Io dormo, ma veglia il mio cuore15.
La fecondità della frequente invocazione mentale del nome di Gesù Cristo è stata splendi­damente espressa da sant'Esichio: "Come la pioggia, quanto più scende abbondante, tanto più impregna la terra, così anche la terra del nostro cuore è plasmata e rallegrata dal nome di Cristo gioiosamente invocato, quanto più spesso lo pronunciamo"16.
Benché questo metodo, basato sull'esperienza e le osserva­zioni dei santi padri, sia sufficiente come guida pratica per raggiungere il fine desiderato della preghiera interiore, esistono tuttavia metodi più elevati, come l'attenzione e l'introduzione della mente nel cuore. Questo primo metodo è soprattutto in­dicato per coloro che non hanno ancora appreso l'attenzione e non sono in grado di lavorare proficuamente sul proprio cuore, ovvero può essere un'introduzione e preparazione ai metodi successivi. D'altra parte, secondo le diverse disposi­zioni e capacità, ognuno può scegliere il metodo più adatto per sé, come consiglia Niceforo il monaco (Dobrotoljubie nella II parte)17.

Seconda chiave
L'attenzione è la sorveglianza (custodia) della mente, come si esprime Niceforo il monaco18, ovvero l'attenzione è la raccolta della mente in se stessa, sprofondata nella meditazione di un unico oggetto, abbandonando tutti i pensieri e le rappresentazioni secondarie. Quanto questo sia necessario nell'opera­zione della preghiera lo testimoniano i santi Callisto e Ignazio, sostenendo che “l'attenzione che cerca la preghiera la trova si­curamente: la preghiera infatti consegue all'attenzione più che a qualsiasi altra cosa di cui ci si debba occupare”(Dobrotoljubie parte II, e. 24)19. Similmente scrive anche sant'Esichio: “Quan­to più presterai attenzione ai pensieri, tanto più ardentemen­te pregherai Gesù”20; e ancora che “la ragione della gioia e della pace del cuore è l'attenzione estrema”21, che è al­trettanto "indispensabile per la preghiera che il lucignolo per la luce della lampada”22.
Allo stesso modo anche Ni­ceforo il monaco, nell'esposizione dell'insegnamento sulla tec­nica della preghiera interiore, conclude infine che se non sa­rà agevole, seguendo il metodo indicato, discendere nel cuore, allora bisognerà adoperare tutta l'attenzione possibile durante la preghiera, ed essa sicuramente aprirà l'ingresso del cuore e dischiuderà la preghiera interiore, cosa che, come egli stesso assicura, è provata dall'esperienza (Dobrotoljubie parte II)23.
Anche la sacra Scrittura conferma questa verità, che senza at­tenzione non è possibile unirsi a Dio, quando dice: imparate e sappiate che io sono Dio. E così, colui che desidera attraverso l'attenzione ottenere la preghiera interiore, deve mantenersi, per quanto è possibile, in solitudine, evitare le conversazioni con la gente, operare la preghiera senza fretta e non tutta di seguito, ma con qualche intervallo,sprofondando la mente nelle parole della preghiera nello stesso modo in cui ci si concentra nella lettura di un libro, cacciando quanto più possibile i pensieri e fissando con tutte le forze l'attenzione su quel Gesù che invochiamo, e sulla sua misericordia, che imploriamo.
Talvolta, dopo aver mormo­rato la preghiera, è bene custodire un po' di silenzio, come nell'attesa della risposta di Dio (reactio), sforzandosi di man­tenere l'attenzione anche quando capita d'essere distratti, ri­cordando sempre che a causa del Signore ci siamo decisi a di­morare nell'incessante attenzione della preghiera, purificando la mente dai pensieri.

Terza chiave
La natura stessa, sembra, mostra che l'uomo racchiude in se stesso grandi e misteriosi presentimenti: le estasi improvvise, il gusto della dolcezza spirituale interiore, la tranquilla immersione in se stessi e così via sono segni, e seguendoli si possono raggiungere le più profonde rivelazioni. Molti persino tra i pri­mitivi, induisti, buddisti, lamaisti, brahmani e altri, hanno riconosciuto questa verità per via naturale, ovvero la fecondità della concentrazione in se stessi, e perciò, grazie all'aiuto di diversi metodi fisiologici, propongono una via verso il cuore, che rivela loro il mistero della preghiera spirituale. Gli antichi padri della chiesa, al di sopra di ogni metodo per la salvezza posero l'immersione in se stessi, ovvero l'attenzione al proprio cuore (la sobrietà), secondo le parole di Cristo Salvatore: “Purifica prima l'interno del bicchiere e del piatto, e allora anche l'esterno sarà puro 24. Uno dei filosofi contemporanei più noti in Europa, riconoscendo l'importanza del ritorno in se stessi, arriva addirittura a formulare il seguente assioma: "Tutti i concetti astratti, appresi solo dalla scuola, o dai libri, sono poco affidabili. Al fine di acquisire una conoscenza illu­minata e scoprire la verità è necessario scendere nelle profon­dità di se stessi, poiché nell'uomo interiore sta il pegno della conoscenza del mistero".
______________________________
NOTE
1 Sal 119,11.
2 Callisto Catafugiota, L'unione divina 19 (Filocalia IV, pp. 412-413).
3 Cf. Pseudo-Simeone il Nuovo Teologo, Le tre forme della preghiera (filocalia IV, pp. 509-510).
4 Tropario dall'ufficio comune per un martire con i sacri ordini.
5 Le 11, 1.
6 Dalla vita del nostro santo padre Massimo il Kausokalyba (Filocalia IV, pp. 5 r 7-520).
7 Nota a margine: "Vedi Dobrotoljubie parte prima". Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Discorso sulla fede (Filocalia IV, p. 500).
Nota a margine: "Gregorio il Sinaita, Dobrotoljubie nella prima parte". Cf. Gregorio il Sinaita, L' esichia e i due modi della preghiera  (Filocalia III, pp. 585-586).
9 Le 17,21.
10 Cf. Gv 1,5.12; 12,28.
11 Esichio di Batos, A Teodulo (Filocalia I, p. 231).
12 Di questo Florilegio compilato dal monaco russo Dorofej (prima metà del XVII secolo), molto diffuso in ambito monastico, esistevano varie edizioni a stampa impresse a Grodno alla fine del Seicento. Ignatij (Brjancaninov) ne vide un esemplare del 1697 nella biblioteca del monastero di Valaam; un altro esemplare (1690) si trovava nella biblioteca di Optina. Una copia manoscritta del XVIII secolo è conservata a San Panteleimon sul Monte Athos.
13 Cf. Gregorio il Sinaita, Come l'esicasta deve starsene seduto in preghiera (Filocalia III, pp. 597-598).
14 Cf. Niceforo l'Esicasta, Discorso sulla sobrietà (Filocalia III, pp. 525-526); Gregorio il Sinaita, L'esichia e i due modi della preghiera (ibid., p. 586); Id.,Come l'esicasta deve starsene seduto in preghiera (ibid., p. 599); Pseudo-Simeone il Nuovo Teologo, Le tre forme della preghiera (ibid. IV, pp. 510-513).
15 Ct 5,2.
16 Esichio di Batos, A Teodulo 41 (Filocalia I, p. 238).
17 Cf. Niceforo l'Esicasta, Discorso sulla sobrietà (Filocalìa III, p. 525)-
18 Ibid., p. 524.
19 Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Metodo e canone rigoroso 24 (Filocalia IV, p. 187). La citazione è tratta da Nilo Asceta [Evagrio], "Discorso sulla preghiera 149 (Filocalia I, p. 289).
20 Esichio di Batos, A Teodulo 90 (Filocalia I, p. 247).
21 Cf. ibid. 91 (ibid.).
22 Ibid. 102 (Filocalia I, p. 248).
23 Niceforo l'Esicasta, Discorso sulla sobrietà (Filocalia I, pp. 526-527).
24 Cf. Mt 23,26. 

Tratto da: RACCONTI DI UN PELLEGRINO RUSSO – ED. QIQAJON, a cui si rimanda vivamente per l’approfondimento.

IL MONASTERO DI SANTA CATERINA DEL MONTE SINAI


IL MONASTERO DI SANTA CATERINA
DEL MONTE SINAI


Monastero di Santa Caterina
Per un approfondimento, vedi anche:
 Arcivescovo Damianos: Il Monastero del Sinai oggi
  INDICE:

Notizie storiche 
Fondato dall'imperatore Giustiniano tra il 527 e il 547 d.C. in una valle ai piedi del Monte di Mosè, ad un'altezza di 1570 m, il monastero di Santa Caterina venne ingrandito a più riprese nei periodi successivi; la cinta muraria è di dimensioni e di altezza diverse per la necessità di adattarla alla conformazione della montagna.
Nel racconto biblico gli Ebrei dopo 50 giorni di marcia tra le montagne ed i deserti del Sinai, arrivarono al Monte Horeb sulla cui vetta Mosè ricevette la Tavola della Legge, "I dieci comandamenti" sui quali sono fondate le dottrine ebraica e cristiana.
Il monte Horeb chiamato poi Monte di Mosè (Gebel Musa) divenne la montagna sacra per eccellenza, luogo di pellegrinaggio e di meditazione per i primi cristiani.
Nel 330 d.C. Elena, madre dell'imperatore Costantino, che con il suo celebre editto del 313 d.C. aveva posto fine alle persecuzioni garantendo la libertà di culto, fece costruire una piccola chiesa nel luogo dove si trovava il Roveto ardente.
Nel 527 d.C. Giustiniano ordinò la costruzione di un vero e proprio monastero con una grande basilica, chiamata la "Basilica della Trasfigurazione", protetta da un'imponente cinta muraria contro le incursioni dei beduini, che includeva anche la chiesa primitiva di Santa Elena.
Tra l'VIII e il IX secolo d.C. i monaci ritrovarono il corpo di Santa Caterina che, secondo la tradizione, era stato trasportato dagli angeli sulla cima del Monte Caterina. Il corpo della Santa venne collocato in un sarcofago all'interno della basilica dove si trova tuttora e così venne chiamato "Monastero di Santa Caterina".
Nonostante la conquista da parte degli arabi musulmani del Sinai nel 641 d.C., i monaci continuarono a vivere nel convento, salvaguardati da un editto di Maometto che assicurava loro la sua protezione, provvedimento che prese anche Napoleone durante la Campagna d'Egitto.
I monaci che vivono oggi nel monastero sono 25 ed appartengono ad un ordine monastico che in origine aderiva alla Chiesa di Roma e nel 1260 fu riconosciuto dal papa Innocenzo IV, ma due secoli più tardi, nel 1439, all'epoca del Concilio di Firenze, se ne staccò per seguire la liturgia della Chiesa Ortodossa d'Oriente.
Essi seguono la regola di San Basilio e adottano la lingua greca nelle funzioni liturgiche essendo i monaci stessi in gran maggioranza greci.
Oggi il Monastero è meta di pellegrinaggio sia religioso che turistico ed è uno dei luoghi più affascinanti del Sinai; non si deve assolutamente rinunciare alla salita notturna sul Monte di Mosè (2286 m) in cima al quale vi è una suggestiva piana circondata da montagne granitiche, detta "Anfiteatro dei 70 Saggi di Israele" in quanto qui si fermarono i 70 saggi che accompagnarono Mosè nella sua ascensione poiché solo il profeta potè presentarsi al cospetto di Dio (cfr. Esodo 24, 1-11).

Quella che è la più piccola diocesi del mondo è allo stesso tempo il più antico convento cristiano ancora esistente. Al suo interno la maggiore collezione esistente al mondo di icone e antichi manoscritti.
Il monastero di Santa Caterina è  passato indenne fra la corruzione dei secoli poichè tutti , da Maometto, fondatore dell'Islam, ai Sultani turchi, ai Califfi musulmani e a Napoleone, lo presero sotto la loro protezione preservandolo da rapine e distruzioni. Nella sua lunga storia Santa Caterina infatti non è mai stata conquistata, nè danneggiata. Ha attraversato le epoche fino ad oggi, mantenendo intatta l'immagine di luogo  sacro della Bibbia. 

L'inizio del monachesimo al Sinai

Il monte Sinai: icona del XVII sec. Mosè, in alto a sinistra, riceve le Tavole della Legge. In alto a destra gli angeli portano il corpo di Santa Caterina all'ultimo riposo, sulla cima del monte che porta il suo nome. All'esterno del monastero si notano tante cappelle. L'icona è stata dipinta nel monastero stesso.
I primi cristiani giunsero al Sinai per allontanarsi dalle persecuzioni del paganesimo Romano, e spinti dalla ricerca di tranquillità e santificazione.
 Le prime piccole comunità monastiche si formarono a partire dal III° sec. della nostra era, nei pressi dei luoghi sacri attorno all'Horeb: il roveto ardente, l'oasi di Firan ed altri luoghi del deserto del Sinai.
Un simile cammino spirituale fu percorso da coloro che partirono verso la Terra Santa e le roventi montagne del deserto di Giuda, alla ricerca di santificazione.
La vita dei primi monaci fu difficilissima, messa alla prova da continue privazioni, dalla natura ostile e dagli attacchi dei nomadi ladri. I primi eremiti, vivevano nelle caverne e nella più assoluta povertà, da soli. Solamente nella ricorrenza delle più grandi festività, si raccoglievano attorno al roveto ardente per ascoltare la guida spirituale e ricevere la Santa Comunione. Solamente nella ricorrenza delle più grandi festività, si raccoglievano attorno al roveto ardente per ascoltare la guida spirituale e ricevere la Santa Comunione.
I monaci svolsero anche una funzione missionaria in queste terre desolate. abitate da tribù pagane, tanto che all'epoca della conquista araba del V° secolo, la maggior parte degli abitanti del Sinai erano diventati cristiani.
Finalmente, nel 313, sotto Costantino il Grande, il cristianesimo fu riconosciuto religione di stato, con libertà di culto, in tutto l'Impero. Lo stesso Costantino ed altri imperatori bizantini che gli succedettero, furono favorevoli al monachesimo che prese nuovo slancio.
I monaci del Sinai chiesero protezione alla madre di Costantino, l'imperatrice Elena. Fu Elena che fece costruire nel 330 una piccola chiesa dedicata alla Madre di Dio, e una torre, nel luogo del roveto ardente, che doveva servire da riparo ai monaci del deserto.
Il roveto: trapiantato a qualche metro da quello originale, sulle cui radici è stata eretto l'altare sacro della Cappella del Roveto Ardente. Questo roveto è unico esemplare in tutta la penisola del Sinai ed ogni tentativo di trapiantarlo altrove, è fallito.
Il famoso codice siriaco-riscritto, custodito nel monastero:  è la più antica traduzione  dei Vangeli, datato nel V sec.,  ma scoperto solo nel 1892
 
Il campanile della chiesa cristiana "Della Trasfigurazione", che incorpora al suo interno la cappella
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