5/20/2011
5/18/2011
San Simeone lo Stilita Vita, Morte, Miracoli
"Il famoso Simeone, meraviglia dell'umanità, tutti i sudditi dell'Impero romano, lo conoscono; ma è celebre anche tra i Persiani, i Medi e gli Etiopi e la sua fama si è diffusa fino ai nomadi della Scizia ai quali ha fatto conoscere il suo amore per la penitenza e la sapienza". Ecco le parole con le quali Teodoreto apre la biografia del primo stilita. E in realtà, la vita di questo anacoreta supera in fatto di meraviglioso e sovrumano quella di tutti i monaci di Palestina, Siria e Mesopotamia.
Era nato a Sissa ai confini dell'Antiochena e della Cilicia, da una famiglia di pastori d'armenti. Un giorno -aveva undici anni- udì leggere in chiesa il Vangelo delle Beatitudini e la sua fede si infiammò. Beati non erano quelli che il mondo proclamava tali, erano i poveri, i cuori puri, gli afflitti, i sofferenti. Andò a trovare un sacerdote: <<Come posso realizzare questa benedizione?>>. <<Concludendo - gli rispose questi - vita eremitica.>> <<Ma dove?>> il povero giovane ignorava tutto delle pratiche ascetiche e delle fondazioni monastiche. Si precipitò in una cappella vicina dedicata ai santi martiri, si prosternò fino a terra, e supplicò il cielo di mostragli la via. In quella posizione, s'addormentò ed ebbe un sogno: si vedeva, con una pala in mano, a scavare, scavare, scavare; e ogni volta che si fermava, una voce gli diceva :<<Scava ancora!>>. E lui si accaniva ad obbedire. Fino a che la voce proclamò: <<Basta! Adesso potrai edificare senza difficoltà>>. Trovò non lontano di lì un gruppo di asceti e si mise alla loro scuola.
Per due anni, ne ascoltò i consigli e ne imitò le usanze. Erano quelle indubbiamente, le fondamenta che doveva scavare. Si sentì abbastanza forte, da sottoporsi alla regola più severa; gli fu indicata Teleda.
Non chiese l'ammissione alla casa madre, costruita da Ammiano, ma ad una filiale costruita da Eusebona e Abibion, governata all'epoca dal loro successore, Eliodoro, uomo stimato per santità e che aveva già trascorso sessantadue anni in quel monastero senza uscirne. Lo accolsero forse con un po' di diffidenza, da quel principiante che era, il quale avrebbe tuttavia superato gli ottanta anacoreti colà riuniti. Le cose non procedettero senza mormorazioni e perfino qualche scontro: Simeone, non essendo in cenobio sottoposto a una regola, ma libero di disporre di sé secondo il proprio giudizio, si dava a pratiche fino a quel momento sconosciute. Quando i più valorosi digiunavano tre giorni, quel giovane di quattordici o quindici anni trascorreva una settimana senza prendere una briciola di pane. E poi fu la volta di due settimane, e ben presto di tre. Trovò un sistema eccellente per non imporre la propria presenza ai fratelli che mormoravano: scavò in fondo all'orto una fossa grande abbastanza da contenere il suo corpo e passò due anni in quella strana cella, esposto a tutte le intemperie. Infine, una delegazione di fratelli andò a trovare Eliodoro, pregandolo di espellere quell'originale che nuoceva alla pace comune. L'abate, che ammirava l'asceta, accetto con un sospiro di dispiacere e comunicò all'interessato.
Sembra che per mitigare la severità di una tale misura l'abate si limitasse ad allontanare Simeone. Questi si ritirò nella foresta vicino al monastero, continuando ad abbandonarsi alle sue mortificazioni. Un monaco che passava di lì avanzò verso di lui con l'intenzione malvagia di muovergli dei rimproveri: cadde a terra come fulminato e uscì da quello stato comatoso soltanto cinque giorni più tardi, quando Simeone ebbe ingiunto ai fratelli di buttargli dell'acqua addosso. Quel miracolo lasciò i suoi oppositori enormemente stupiti. Essi accettarono pertanto che il perturbatore riprendesse il proprio posto nella cinta del monastero. Egli però non si fece più vedere. Fu un fratello incaricato del servizio della legna a dare l'allarme un mese dopo: aveva intravisto Simeone all'interno di una profonda caverna nascosta dalla riserva di legna. Eliodoro andò ad invitarlo a riunirsi alla comunità: era domenica e lui si affrettò, tutto felice di partecipare ai santi Misteri. Ma un altro incidente pose nuovamente il problema della sua presenza. Fratel Simeone puzzava sempre di più, al punto che ogni volta che compariva tra gli altri questi ne provavano nausea. Questi non era una conseguenza della sporcizia, perché in proposito i monaci siriani si equivalevano tutti. Doveva essere qualcosa di eccezionale a indurre quegli esseri rozzi, usi agli odori più nauseabondi a lamentarsi con orrore. Eliodoro convocò il monaco importuno. Era vero: appena Simeone fu in sua presenza, l'abate si sentì soffocare. Gli ordinò di togliersi la tonaca: era incollata alla pelle e la pelle cominciava ad andare in putrefazione. Si dovette chiamare il fratello infermiere, il quale distaccò pazientemente l'abito con olio e acqua calda. Allora, la spiegazione fu chiara: una corda di palmizio era arrotolata attorno ai fianchi di Simeone così strettamente da penetrare nella carne, che stillava sangue e brulicava di vermi. Fu necessario chiamare un medico, che dovette tagliare nel vivo per togliere lo strumento del supplizio. E l'operazione causò a Simeone dolori tali che lo si credette sul punto di morire.
Se la cavò con cinquanta giorni di infermeria.
Appena fu in piedi, chiese il permesso di assentarsi: gli fu dato sollecitamente. Andò a seppellirsi per due settimane in un sepolcro. Ma non era abbastanza terribile. Aveva udito parlare di una caverna spaventosa, in cui nessuno aveva mai osato avventurarsi: stupendo posto per una quaresima! Vi si infilò tranquillamente con la sola arma del seguo della croce e con la sola luce delle grazie d'orazione. La cosa si riseppe, se ne ebbe paura: l'abate, sempre premuroso verso l'enfant terrible, inviò una squadra di monaci con torce. Una processione di fiaccole si mosse quindi nelle sinuosità dell'antro maledetto fin quando non trovò il fuggitivo assorto nella preghiera.
Decisamente un simile esaltato, sia pure Santo, sia pure taumaturgo, non era fatto per vivere in società. Una nuova delegazione andò a trovare Eliodoro. I monaci non si erano precisamente recati a Teleda per trattenere con loro Simeone, per andare alla ricerca di Simeone, per tremare ai pericoli incorsi da Simeone, per strappare Simeone alla morte. L'abate, consapevole del duplice ruolo di custode della regola e di padre delle pecorelle eccentriche, chiese loro di pazientare ancora un anno. Infondo, era persuaso che quell'essere straordinario era una benedizione per la casa e che solo l'imperfezione dei monaci, se non addirittura la gelosia, s'opponeva la sua presenza. Ma in capo ad un anno, l'umore degli oppositori non era cambiato, Eliodoro allora convocò l'irrequieto di Dio: era tempo per lui di congedarsi per sempre. Gli offrì del denaro che il giovane rifiutò all'istante: bastava la benedizione del padre.
Simeone si ritrovò solo. Aveva trascorso dieci anni nel ritiro di Teleda. Aveva scavato abbastanza in profondità per gettare le basi del suo edificio? Si inginocchiò rivolto ad oriente: <<Mio Signore e mio Dio, mia forza e mio sostegno, ti scongiuro: guidami al luogo in cui vuoi che io ti serva.>> Camminò verso nord superò la montagna di Corifè e arrivò a Telanissos, l'attuale Deir Serman, dove trovò per caso un luogo disabitato, una cella bella e pronta, probabilmente abbandonata da un altro eremita.
Comunque, quel ritiro era noto, perché poco tempo dopo esservi sistemato, udì bussare alla porta un personaggio importate, il sacerdote Basso, corepiscopo, cioè associato ad un vescovo (indubbiamente, in questo caso, quello di Antiochia) e visitatore dei monaci della regione. Aveva fondato lui stesso non lontano di lì, quel luogo che oggi è Batabu, un monastero di duecento monaci, rinomato per lo spirito di povertà e per la disciplina della sua regola.
Vedendo in quel prelato l'inviato della Chiesa, e quindi di Dio, Simeone gli apri la propria anima. Il visitatore, a sua volta, provò una certa perplessità davanti a quell'uomo di Dio a un tempo profondamente soprannaturale e insufficientemente equilibrato. Quando giunse la quaresima, Simeone gli chiese di murare la porta della cella con il fango, ma l'altro non volle acconsentire. Allora, il solitario trovò il mezzo di ottenere l'approvazione: avrebbe collocato nella cella un orcio d'acqua e dieci piccoli pani, quanto bastava per vivere fino a Pasqua. Basso murò la porta e riprese la sua strada. Tornò dopo quaranta giorni, bussò, ma non ebbe risposta. Tolse allora il fango secco ed entrò: Simeone era steso a terra privo di conoscenza, i viveri erano intatti: dieci pani e l'orcio ancora pieno d'acqua. Il sacerdote inumidì il volto di Simeone, gli bagnò le labbra, lo confortò e gli amministrò la santa Eucaristia. L'anno successivo, Simeone tornò alla carica: volle fare il digiuno quaresimale integralmente e vi riuscì: questa volta il corpo era domato.
Dopo tre anni vissuti fra quelle quattro mura, il solitario, che aveva goduto di numerosi momenti per rimuginare progetti fantastici, fece bagaglio (il che richiese ben poco tempo) e si avviò ancora verso il nord. Sì, ormai aveva scavato quanto bastava a porre le fondamenta. Si fermò davanti alla montagna che oggi è chiamata Qaalat Seman e vi sali sopra.
Dalla vetta piatta si distingueva tutta la regione. L'asceta però non cercava un panorama, bensì un posto sperduto in cui nessuno transitasse e in cui potesse starsene solo a pregare al cospetto del cielo. Preso possesso del luogo innalzò una cinta di pietre a secco. Si procurò una catena di ferro di venti cubiti e ne fissò un'estremità a una roccia e l'altra alla caviglia: era prigioniero per propria decisione. Tuttavia, osserva Teodoreto, la catena di ferro non impediva di volare al suo pensiero. Ma ecco che un altro corepiscopo, di nome Melezio, (forse era successo a Basso, oppure ne condivideva la missione) si presentò all'ingresso della cinta. È supponibile che Simeone, il quale aveva ricevuto la vestizione monastica in nome della Chiesa e pertanto si trovava sotto la sua giurisdizione, avesse segnalato alle autorità episcopali il cambiamento di domicilio; e se dobbiamo ammirare lo spirito ecclesiale dell'anacoreta, dobbiamo anche ammirare il coraggio con cui il visitatore si recava a trovare le pecorelle in qualunque luogo fossero andate a pascolare. La fantasia del giovane monaco non piacque al prelato: andò alla ricerca di un fabbro (non ci viene detto quanto tempo i superiori di Simeone siano stati impegnati a occuparsi della sua anima e del suo corpo) e fece liberare l'eremita dalla catena: sotto il pezzo di cuoio che impediva all'anello di ferro di ferire la caviglia, trovò venti grosse cimici che succhiavano il sangue del martire volontario.
Evidentemente, il fabbro non tenne la bocca chiusa. Gli abitanti della pianura e della montagna intrapresero l'ascesa del monte per andare ad ammirare il santo e chiedergli miracoli. Dio, che vedeva soltanto l'amore del suo servo e non gli errori e le sconsideratezze, gli diede il potere di esaudire quella povera gente. La notizia dei miracoli moltiplicò l'affluenza. Simeone, assediato nella sua solitudine, non cercò un altro luogo appartato come avevano fatto altri prima di lui. Nella sua ingenuità, per sottrarsi agli ammiratori che lo incalzavano, lo toccavano, gli s'inginocchiavano davanti, non trovò altro sistema se non quello di edificare una colonna di pietra e salirvi sopra. E poiché gli importuni gli apparivano sempre troppo vicini, si ritenne in dovere di innalzare sempre di più la colonna, che dai sei cubiti iniziali salì progressivamente a dodici, a ventidue, a trentasei e infine a quaranta cubiti: diciassette metri! Alta abbastanza da contemplare la folla come dal sesto piano di un immobile moderno.
Perché la folla affluiva da ogni parte, Teodoreto racconta che veniva non solo dall'Armenia e dalla Persia, ma anche dalla Gallia, dalla Spagna e dalla Bretagna. E non per essere spettatori di una vana curiosità, quasi si trattasse di un trapezista o di un equilibrista, ma proprio per edificarsi alla vista di un uomo di Dio. Perché Simeone s'era fissato come programma l'adorazione, la preghiera, la contemplazione, l'esortazione della gente. E lo realizzava a meraviglia, spesso rapito in spirito dal suo Creatore, chinandosi profondamente al cospetto della maestà divina, rimanendo per ore intere nello stato di stupore prodotto in lui dagli abissi della Santissima Trinità.
Anche in quella situazione che per chiunque altro sarebbe divenuta insostenibile in capo a un'ora, aveva conservato il ritmo della vita monastica: preghiera per la maggior parte della notte, poi qualche momento di sonno, (col petto chinato verso il vuoto) di nuovo preghiera fino all'ora nona, esortazioni alla folla, regolamento di liti, consigli per ciascuno fino al tramonto del sole.
Allora congedava la gente dopo averle dato la sua benedizione.
Se la preghiera incessante di quell'uomo inchiodato sul posto per propria volontà era motivo di edificazione, il miracolo della sua ininterrotta immobilità era un motivo di stupore che la fede di quanti vi assistevano trasformava in azione di grazie. Ognuna delle colonne successive misurava un cubito di diametro (50 centimetri circa): tale da costringere a restare fisso nella posizione eretta, senza nemmeno poter fare un passo in avanti o all'indietro. Ora, quel contemplativo, senza dubitare una sola volta della potenza e della misericordia di Dio che gli permettevano di non cadere mai, né di giorno né di notte, dormisse o fosse sveglio, si tenesse dritto o si chinasse per le numerose prosternazioni, (un compagno di Teodoreto ne contò milleduecentoquarantaquattro in un solo giorno) restò in piedi, a gloria di Dio e a meraviglia degli uomini, per trentasette anni di seguito. Non era una favola o un imbroglio. Milioni di individui lo videro: in ragione di tremila al giorno (è la stima minima), è precisamente di milioni che bisogna parlare. E quello spettacolo non si presentò nell'illusione collettiva di un istante, ma per anni, giorno dopo giorno. Testimoni accorti, degni di fede e dallo spirito critico, alcuni dei quali accusarono Simeone di orgogliosa e inutile originalità, constatarono quel fenomeno, inaudito e continuo.
Ma non era quella la sorgente più profonda e più pura della carità che trasformava tanti spettatori. Se molti cambiarono vita per aver avvicinato un istante Simeone lo Stilita, se molti sentirono il proprio cuore sciogliersi di compunzione, fu perché Simeone lo Stilita era un'ostia vivente: offriva ogni giorno la sua ininterrotta passione al Dio che contro tutte le leggi della natura lo conservava in vita per la redenzione degli uomini. Perché il potere soprannaturale che lo manteneva in piedi non gli garantiva la salute, e se un continuo miracolo non gli permetteva di morire per la lenta distruzione dell'organismo, non per questo gli era tolta la sofferenza che ne risultava. Via via che gli anni d'immobilità si sommavano, i piedi si gonfiavano e si piagavano, la carne delle gambe cadeva a brandelli e marciva al sole, la pelle del ventre si fendeva e lasciava intravedere le viscere, le vertebre sconnesse sporgevano fuori dalla schiena e foravano la tonaca, dalla testa ai piedi egli non era più che un ammasso di organi sanguinanti e scompaginati. Ma continuava a rimanere ritto: offriva il suo martirio e contemplava la Bellezza divina. L'unione fisica alle sofferenze di Gesù crocifisso, che avverrà più tardi con le cinque piaghe delle mani, dei piedi e del costato, si manifestava in Simeone in tutto il corpo, com'era accaduto per il corpo di Cristo quale era apparso alla folla di Gerusalemme il venerdì santo all'ora nona.
Tutte quelle torture fisiche, alle quali si accompagnava una dolce pace spirituale, erano conosciute solo dagli intimi. Ma gli intimi, nel corso degli anni, divennero sempre più numerosi e finirono per raccontare in giro, meravigliati, quel che sapevano. Fu però una circostanza particolare a mettere sotto gli occhi di tutti la miseria dell'uomo e la protezione di cui godeva il santo: un'ulcera purulenta si formò in un piede e assunse proporzioni tali che il pus e i vermi cadevano dalla colonna fino a terra. Tutti gli astanti erano sconvolti. Si doveva mettere termine a quella prova? I notabili, i sacerdoti, i vescovi, riuniti ai piedi dell'uomo dei dolori, lo supplicavano di scendere e di concedersi un po' di riposo. L'imperatore Teodosio in persona gli scrisse e gli fece rimettere la lettera da tre vescovi: gli propose di inviargli il suo medico personale per curarlo. Simeone disdegnò ogni preghiera e ogni proposta: <<Sono qui - rispose - per amore di Gesù Cristo. Se è Sua volontà che io muoia, morirò. Se vuole mantenermi invita, è abbastanza potente da farlo. Nell'uno e nell'altro caso, adoro la sua santa volontà>>. Il prete Como, uno dei suoi biografi, paragona in questa circostanza Simeone a Giobbe: il diavolo aveva avuto il permesso di colpirlo, ma non di farlo morire. Quel supplizio durò nove mesi, fino al termine della quaresima; il mercoledì santo, Simeone entrò in un torpore estatico da cui uscì solamente per constatare, con quanti lo circondavano, che i suoi piedi erano divenuti tutt'a un tratto normali. Il patriarca d'Antiochia si recò di persona a portargli la santa Eucaristia, arrampicandosi, per compiere quel gesto, sulla lunga scala che i discepoli avevano costruito per salire a parlare col maestro.
Simeone sapeva in quale anno sarebbe morto: ne era stato avvertito quarant'anni prima da una voce celeste; ma ignorava in quale giorno: la voce aveva semplicemente precisato che sarebbe stato preceduto da un segno celeste. Quando giunse l'anno 460, egli si mise ad aspettare il segno. E allorché un terremoto sconvolse la città di Antiochia, non dubitò che si trattasse di ciò a cui la voce aveva alluso. Per cinquanta giorni, tutta la città di Antiochia, spaventata dal cataclisma e in cerca di un rifugio soprannaturale, si accalcò intorno al santo. Il 29 luglio, cinquanta giorni dopo la prima scossa sismica, si riunirono sotto la colonna tante persone quante non se n'erano mai viste. Ispirato dall'alto, Simeone si rivolse loro così: <<Figli miei, la prova è terminata, tornate nella vostra città. Passate innanzi tutto tre giorni in preghiera e allora la vita riprenderà come prima>>. Ripartirono e lui si preparò a morire.
Il 29 agosto, sentì all'improvviso che le forze l'abbandonavano.
Il sole si oscurò. Effluvi soavi si sparsero per l'aria. I pellegrini che erano presenti capirono. <<Padre, dacci la tua benedizione!>>, gridarono. Allora, solennemente, Simeone alzò la mano e per tre volte benedisse l'umile popolo di credenti radunato ai suoi piedi. Poi s'appoggiò alla spalla di un discepolo che aspettava quell'istante. Il discepolo lo guardò: il volto era radioso, ma l'anima aveva lasciato la terra. Il patriarca d'Antiochia accorse, seguito dai vescovi, da Ardaburio, comandante in capo dell'esercito imperiale, e da una ventina di alti funzionari dell'Impero. La traslazione del corpo ad Antiochia fu solenne: giaceva su un carro circondato da dignitari ecclesiastici e civili. Una folla che andava facendosi sempre più fitta, accorsa da Antiochia e da altre città, accompagnava il corteo formando con l'esercito uno schieramento d'onore. Dopo le esequie, le spoglie furono provvisoriamente deposte nell'oratorio di Cassiano, poi si diede loro una sepoltura definitiva in una cappella innalzata per l'occasione nel grande santuario intitolato alla Concordia e alla Penitenza.
Nella cinta di Simeone, i fedeli costruirono intorno alla colonna una chiesa e delle celle, perché il ricordo del grande mistico si perpetuasse sul posto. Il monte di Simeone fu chiamato monte di Mandra (dal greco mandra: piccolo monastero).
LE TRE CHIAVI AL TESORO DELLA PREGHIERA INTERIORE
LE TRE CHIAVI
AL TESORO DELLA PREGHIERA INTERIORE
(RINVENUTE TRA LE RICCHEZZE SPIRITUALI DEI SANTI PADRI)
Nel mio cuore custodisco la tua parola1.
Davide
Davide
Bisogna che la mente si protenda verso l’alto con ogni mezzo2.
Catafugiota
Catafugiota
"Come la pioggia, quanto più scende abbondante, tanto più impregna la terra, così anche la terra del nostro cuore è plasmata e rallegrata dal nome di Cristo gioiosamente invocato” (Sant’Esichio)
Premessa
Se è vero che ciascuno di noi ha le sue qualità, inclinazioni e capacità, e che lo stesso fine si raggiunge per vie diverse, in modi differenti, che portano tutti all'unica meta, così anche l'acquisizione dell'attività interiore della preghiera si ottiene per mezzo di molte vie, come leggiamo negli insegnamenti dei santi padri. Questi si possono dividere in specifici e generali.
Specifici sono per esempio:
- l'obbedienza senza riserve, come dice Simeone il Nuovo Teologo3;
- le fatiche e l'ascesi del corpo, come proclama la chiesa nei suoi inni: "Con le opere, o ispirato da Dio, hai ottenuto l'accesso alla visione"4;
- la preghiera esteriore che chiede la preghiera interiore: Signore, insegnaci a pregare...";
- particolari manifestazioni della grazia, come nel caso di Kausokalyba che prostrandosi all'icona della Madre di Dio, improvvisamente sentì scendere nel cuore dolcezza e tepore 6; o come il giovane Giorgio sul quale, durante una semplice preghiera, all'improvviso discese la luce interiore e l'incessante preghiera che agisce da sola7.
- le fatiche e l'ascesi del corpo, come proclama la chiesa nei suoi inni: "Con le opere, o ispirato da Dio, hai ottenuto l'accesso alla visione"4;
- la preghiera esteriore che chiede la preghiera interiore: Signore, insegnaci a pregare...";
- particolari manifestazioni della grazia, come nel caso di Kausokalyba che prostrandosi all'icona della Madre di Dio, improvvisamente sentì scendere nel cuore dolcezza e tepore 6; o come il giovane Giorgio sul quale, durante una semplice preghiera, all'improvviso discese la luce interiore e l'incessante preghiera che agisce da sola7.
I mezzi generali invece e più essenziali per la preghiera, che per così dire la riguardano direttamente, sono tre, come li troviamo presso i santi padri:
1) l'invocazione frequente del nome di Gesù Cristo;
2) l'attenzione da porre in questa invocazione;
3) la discesa in se stessi, ovvero, come si esprimono i padri della chiesa, la discesa della mente nel cuore, attraverso il respiro per le narici.
Siccome questi mezzi ridestano nel modo più rapido e opportuno8 il regno di Dio dentro di noi e permettono di scoprire il tesoro dellapreghiera spirituale interiore, è assolutamente giusto chiamarli chiavi di quest'arca sacrosanta.
Prima chiave
Se la quantità conduce alla qualità, l'invocazione assidua, quasi incessante del nome di Gesù Cristo, anche se all'inizio ancora distratta, può condurre all'attenzione e al tepore del cuore; poiché, come lo stesso nome di Dio contiene in se stesso una tenebra che opera come forza santificante (Giovanni)10, così anche la natura umana è capace di far propria una determinata disposizione, attraverso la ripetizione frequente e l'abitudine. "Per imparare a far bene qualsiasi cosa, occorre farla molto spesso", disse uno scrittore spirituale; e sant'Esichio afferma che "l'assiduità genera l'abitudine e si trasforma in natura"11.
Siccome questi mezzi ridestano nel modo più rapido e opportuno8 il regno di Dio dentro di noi e permettono di scoprire il tesoro dellapreghiera spirituale interiore, è assolutamente giusto chiamarli chiavi di quest'arca sacrosanta.
Prima chiave
Se la quantità conduce alla qualità, l'invocazione assidua, quasi incessante del nome di Gesù Cristo, anche se all'inizio ancora distratta, può condurre all'attenzione e al tepore del cuore; poiché, come lo stesso nome di Dio contiene in se stesso una tenebra che opera come forza santificante (Giovanni)10, così anche la natura umana è capace di far propria una determinata disposizione, attraverso la ripetizione frequente e l'abitudine. "Per imparare a far bene qualsiasi cosa, occorre farla molto spesso", disse uno scrittore spirituale; e sant'Esichio afferma che "l'assiduità genera l'abitudine e si trasforma in natura"11.
Questo, come è evidente dalle osservazioni di coloro che ne hanno la pratica, avviene riguardo alla preghiera interiore nel modo seguente.
Colui che desidera acquisire la preghiera interiore si decide a invocare il nome di Dio spesso, pressoché ininterrottamente, vale a dire pronuncia con le labbra la preghiera di Gesù: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore! ".
Colui che desidera acquisire la preghiera interiore si decide a invocare il nome di Dio spesso, pressoché ininterrottamente, vale a dire pronuncia con le labbra la preghiera di Gesù: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore! ".
Senza turbarsi se all'inizio questa invocazione sarà ancora impura a causa dei pensieri e faticosa a causa della pigrizia, egli la pronuncerà anzitutto a voce alta; quando poi si sarà affaticata la gola, comincerà a mormorarla sottovoce, e solo dopo con il pensiero, come consiglia lo ieromonaco Dorofej12.
Talvolta pronuncia tutte le parole della preghiera, cioè: "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore!", talvolta anche abbreviata, cioè: "Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me", come insegna san Gregorio il Sinaita. Lo stesso aggiunge chel'invocazione abbreviata è più adatta per i principianti, anche se a dire il vero non respinge né l'una né l'altra, consigliando solo di non cambiare di frequente la formula di preghiera, per potersi meglio abituare all'invocazione (Dobrotoljubie nella I parte)13.
E per ridestarsi totalmente all'incessante proferimento della preghiera, chi desidera apprenderla si pone per regola, secondo il tempo, una determinata quantità di ripetizioni, vale a dire di recitare sul rosario qualche centinaio o migliaio di preghiere giorno e notte, senza affrettarsi, ma distintamente, articolando la lingua e le labbra...
Dopo un certo tempo, le labbra e la lingua di chi si esercita finiscono per abituarvisi e per così dire acquisiscono un movimento spontaneo, così che senza particolare sforzo si muoveranno da sole pronunciando il nome di Dio, persino senza voce.
Col tempo, la mente comincerà ad acconsentire a questo movimento della lingua, e gradualmente si purificherà dalla distrazione fino a giungere all'attenzione della preghiera (un pò come i ragazzini imparano le lezioni a scuola, in principio solo con la ripetizione meccanica, ma frequente, della stessa cosa: prima fissano le parole nella memoria, pur senza comprenderne il senso, poi, col passare del tempo, si rivela loro anche la comprensione di quel che, sia pure in modo inconsapevole, hanno ormai indelebilmente appreso).
Infine, potrà avvenire anche la discesa della mente nel cuore, come si esprimono i santi padri14, ovvero la mente, rivolgendosi nel cuore,lo riscalda con il calore dell'amore di Dio, e ormai il cuore stesso, senza costrizione, liberamente, con indicibile dolcezza invocherà il nome di Gesù Cristo, effondendosi senza interruzione davanti a Dio, toccato dalla sua misericordia, come è scritto: Io dormo, ma veglia il mio cuore15.
La fecondità della frequente invocazione mentale del nome di Gesù Cristo è stata splendidamente espressa da sant'Esichio: "Come la pioggia, quanto più scende abbondante, tanto più impregna la terra, così anche la terra del nostro cuore è plasmata e rallegrata dal nome di Cristo gioiosamente invocato, quanto più spesso lo pronunciamo"16.
Benché questo metodo, basato sull'esperienza e le osservazioni dei santi padri, sia sufficiente come guida pratica per raggiungere il fine desiderato della preghiera interiore, esistono tuttavia metodi più elevati, come l'attenzione e l'introduzione della mente nel cuore. Questo primo metodo è soprattutto indicato per coloro che non hanno ancora appreso l'attenzione e non sono in grado di lavorare proficuamente sul proprio cuore, ovvero può essere un'introduzione e preparazione ai metodi successivi. D'altra parte, secondo le diverse disposizioni e capacità, ognuno può scegliere il metodo più adatto per sé, come consiglia Niceforo il monaco (Dobrotoljubie nella II parte)17.
Seconda chiave
L'attenzione è la sorveglianza (custodia) della mente, come si esprime Niceforo il monaco18, ovvero l'attenzione è la raccolta della mente in se stessa, sprofondata nella meditazione di un unico oggetto, abbandonando tutti i pensieri e le rappresentazioni secondarie. Quanto questo sia necessario nell'operazione della preghiera lo testimoniano i santi Callisto e Ignazio, sostenendo che “l'attenzione che cerca la preghiera la trova sicuramente: la preghiera infatti consegue all'attenzione più che a qualsiasi altra cosa di cui ci si debba occupare”(Dobrotoljubie parte II, e. 24)19. Similmente scrive anche sant'Esichio: “Quanto più presterai attenzione ai pensieri, tanto più ardentemente pregherai Gesù”20; e ancora che “la ragione della gioia e della pace del cuore è l'attenzione estrema”21, che è altrettanto "indispensabile per la preghiera che il lucignolo per la luce della lampada”22.
Seconda chiave
L'attenzione è la sorveglianza (custodia) della mente, come si esprime Niceforo il monaco18, ovvero l'attenzione è la raccolta della mente in se stessa, sprofondata nella meditazione di un unico oggetto, abbandonando tutti i pensieri e le rappresentazioni secondarie. Quanto questo sia necessario nell'operazione della preghiera lo testimoniano i santi Callisto e Ignazio, sostenendo che “l'attenzione che cerca la preghiera la trova sicuramente: la preghiera infatti consegue all'attenzione più che a qualsiasi altra cosa di cui ci si debba occupare”(Dobrotoljubie parte II, e. 24)19. Similmente scrive anche sant'Esichio: “Quanto più presterai attenzione ai pensieri, tanto più ardentemente pregherai Gesù”20; e ancora che “la ragione della gioia e della pace del cuore è l'attenzione estrema”21, che è altrettanto "indispensabile per la preghiera che il lucignolo per la luce della lampada”22.
Allo stesso modo anche Niceforo il monaco, nell'esposizione dell'insegnamento sulla tecnica della preghiera interiore, conclude infine che se non sarà agevole, seguendo il metodo indicato, discendere nel cuore, allora bisognerà adoperare tutta l'attenzione possibile durante la preghiera, ed essa sicuramente aprirà l'ingresso del cuore e dischiuderà la preghiera interiore, cosa che, come egli stesso assicura, è provata dall'esperienza (Dobrotoljubie parte II)23.
Anche la sacra Scrittura conferma questa verità, che senza attenzione non è possibile unirsi a Dio, quando dice: imparate e sappiate che io sono Dio. E così, colui che desidera attraverso l'attenzione ottenere la preghiera interiore, deve mantenersi, per quanto è possibile, in solitudine, evitare le conversazioni con la gente, operare la preghiera senza fretta e non tutta di seguito, ma con qualche intervallo,sprofondando la mente nelle parole della preghiera nello stesso modo in cui ci si concentra nella lettura di un libro, cacciando quanto più possibile i pensieri e fissando con tutte le forze l'attenzione su quel Gesù che invochiamo, e sulla sua misericordia, che imploriamo.
Talvolta, dopo aver mormorato la preghiera, è bene custodire un po' di silenzio, come nell'attesa della risposta di Dio (reactio), sforzandosi di mantenere l'attenzione anche quando capita d'essere distratti, ricordando sempre che a causa del Signore ci siamo decisi a dimorare nell'incessante attenzione della preghiera, purificando la mente dai pensieri.
Terza chiave
La natura stessa, sembra, mostra che l'uomo racchiude in se stesso grandi e misteriosi presentimenti: le estasi improvvise, il gusto della dolcezza spirituale interiore, la tranquilla immersione in se stessi e così via sono segni, e seguendoli si possono raggiungere le più profonde rivelazioni. Molti persino tra i primitivi, induisti, buddisti, lamaisti, brahmani e altri, hanno riconosciuto questa verità per via naturale, ovvero la fecondità della concentrazione in se stessi, e perciò, grazie all'aiuto di diversi metodi fisiologici, propongono una via verso il cuore, che rivela loro il mistero della preghiera spirituale. Gli antichi padri della chiesa, al di sopra di ogni metodo per la salvezza posero l'immersione in se stessi, ovvero l'attenzione al proprio cuore (la sobrietà), secondo le parole di Cristo Salvatore: “Purifica prima l'interno del bicchiere e del piatto, e allora anche l'esterno sarà puro” 24. Uno dei filosofi contemporanei più noti in Europa, riconoscendo l'importanza del ritorno in se stessi, arriva addirittura a formulare il seguente assioma: "Tutti i concetti astratti, appresi solo dalla scuola, o dai libri, sono poco affidabili. Al fine di acquisire una conoscenza illuminata e scoprire la verità è necessario scendere nelle profondità di se stessi, poiché nell'uomo interiore sta il pegno della conoscenza del mistero".
Terza chiave
La natura stessa, sembra, mostra che l'uomo racchiude in se stesso grandi e misteriosi presentimenti: le estasi improvvise, il gusto della dolcezza spirituale interiore, la tranquilla immersione in se stessi e così via sono segni, e seguendoli si possono raggiungere le più profonde rivelazioni. Molti persino tra i primitivi, induisti, buddisti, lamaisti, brahmani e altri, hanno riconosciuto questa verità per via naturale, ovvero la fecondità della concentrazione in se stessi, e perciò, grazie all'aiuto di diversi metodi fisiologici, propongono una via verso il cuore, che rivela loro il mistero della preghiera spirituale. Gli antichi padri della chiesa, al di sopra di ogni metodo per la salvezza posero l'immersione in se stessi, ovvero l'attenzione al proprio cuore (la sobrietà), secondo le parole di Cristo Salvatore: “Purifica prima l'interno del bicchiere e del piatto, e allora anche l'esterno sarà puro” 24. Uno dei filosofi contemporanei più noti in Europa, riconoscendo l'importanza del ritorno in se stessi, arriva addirittura a formulare il seguente assioma: "Tutti i concetti astratti, appresi solo dalla scuola, o dai libri, sono poco affidabili. Al fine di acquisire una conoscenza illuminata e scoprire la verità è necessario scendere nelle profondità di se stessi, poiché nell'uomo interiore sta il pegno della conoscenza del mistero".
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NOTE
1 Sal 119,11.
2 Callisto Catafugiota, L'unione divina 19 (Filocalia IV, pp. 412-413).
3 Cf. Pseudo-Simeone il Nuovo Teologo, Le tre forme della preghiera (filocalia IV, pp. 509-510).
4 Tropario dall'ufficio comune per un martire con i sacri ordini.
5 Le 11, 1.
6 Dalla vita del nostro santo padre Massimo il Kausokalyba (Filocalia IV, pp. 5 r 7-520).
7 Nota a margine: "Vedi Dobrotoljubie parte prima". Cf. Simeone il Nuovo Teologo, Discorso sulla fede (Filocalia IV, p. 500).
8 Nota a margine: "Gregorio il Sinaita, Dobrotoljubie nella prima parte". Cf. Gregorio il Sinaita, L' esichia e i due modi della preghiera (Filocalia III, pp. 585-586).
9 Le 17,21.
10 Cf. Gv 1,5.12; 12,28.
11 Esichio di Batos, A Teodulo 7 (Filocalia I, p. 231).
12 Di questo Florilegio compilato dal monaco russo Dorofej (prima metà del XVII secolo), molto diffuso in ambito monastico, esistevano varie edizioni a stampa impresse a Grodno alla fine del Seicento. Ignatij (Brjancaninov) ne vide un esemplare del 1697 nella biblioteca del monastero di Valaam; un altro esemplare (1690) si trovava nella biblioteca di Optina. Una copia manoscritta del XVIII secolo è conservata a San Panteleimon sul Monte Athos.
13 Cf. Gregorio il Sinaita, Come l'esicasta deve starsene seduto in preghiera (Filocalia III, pp. 597-598).
14 Cf. Niceforo l'Esicasta, Discorso sulla sobrietà (Filocalia III, pp. 525-526); Gregorio il Sinaita, L'esichia e i due modi della preghiera 2 (ibid., p. 586); Id.,Come l'esicasta deve starsene seduto in preghiera (ibid., p. 599); Pseudo-Simeone il Nuovo Teologo, Le tre forme della preghiera (ibid. IV, pp. 510-513).
15 Ct 5,2.
16 Esichio di Batos, A Teodulo 41 (Filocalia I, p. 238).
17 Cf. Niceforo l'Esicasta, Discorso sulla sobrietà (Filocalìa III, p. 525)-
18 Ibid., p. 524.
19 Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Metodo e canone rigoroso 24 (Filocalia IV, p. 187). La citazione è tratta da Nilo Asceta [Evagrio], "Discorso sulla preghiera 149 (Filocalia I, p. 289).
20 Esichio di Batos, A Teodulo 90 (Filocalia I, p. 247).
21 Cf. ibid. 91 (ibid.).
22 Ibid. 102 (Filocalia I, p. 248).
23 Niceforo l'Esicasta, Discorso sulla sobrietà (Filocalia I, pp. 526-527).
24 Cf. Mt 23,26.
IL MONASTERO DI SANTA CATERINA DEL MONTE SINAI
IL MONASTERO DI SANTA CATERINA
DEL MONTE SINAI
DEL MONTE SINAI
INDICE:
Notizie storiche
Fondato dall'imperatore Giustiniano tra il 527 e il 547 d.C. in una valle ai piedi del Monte di Mosè, ad un'altezza di 1570 m, il monastero di Santa Caterina venne ingrandito a più riprese nei periodi successivi; la cinta muraria è di dimensioni e di altezza diverse per la necessità di adattarla alla conformazione della montagna.
Nel racconto biblico gli Ebrei dopo 50 giorni di marcia tra le montagne ed i deserti del Sinai, arrivarono al Monte Horeb sulla cui vetta Mosè ricevette la Tavola della Legge, "I dieci comandamenti" sui quali sono fondate le dottrine ebraica e cristiana.
Il monte Horeb chiamato poi Monte di Mosè (Gebel Musa) divenne la montagna sacra per eccellenza, luogo di pellegrinaggio e di meditazione per i primi cristiani.
Nel 330 d.C. Elena, madre dell'imperatore Costantino, che con il suo celebre editto del 313 d.C. aveva posto fine alle persecuzioni garantendo la libertà di culto, fece costruire una piccola chiesa nel luogo dove si trovava il Roveto ardente.
Nel 527 d.C. Giustiniano ordinò la costruzione di un vero e proprio monastero con una grande basilica, chiamata la "Basilica della Trasfigurazione", protetta da un'imponente cinta muraria contro le incursioni dei beduini, che includeva anche la chiesa primitiva di Santa Elena.
Tra l'VIII e il IX secolo d.C. i monaci ritrovarono il corpo di Santa Caterina che, secondo la tradizione, era stato trasportato dagli angeli sulla cima del Monte Caterina. Il corpo della Santa venne collocato in un sarcofago all'interno della basilica dove si trova tuttora e così venne chiamato "Monastero di Santa Caterina".
Nonostante la conquista da parte degli arabi musulmani del Sinai nel 641 d.C., i monaci continuarono a vivere nel convento, salvaguardati da un editto di Maometto che assicurava loro la sua protezione, provvedimento che prese anche Napoleone durante la Campagna d'Egitto.
I monaci che vivono oggi nel monastero sono 25 ed appartengono ad un ordine monastico che in origine aderiva alla Chiesa di Roma e nel 1260 fu riconosciuto dal papa Innocenzo IV, ma due secoli più tardi, nel 1439, all'epoca del Concilio di Firenze, se ne staccò per seguire la liturgia della Chiesa Ortodossa d'Oriente.
Essi seguono la regola di San Basilio e adottano la lingua greca nelle funzioni liturgiche essendo i monaci stessi in gran maggioranza greci.
Oggi il Monastero è meta di pellegrinaggio sia religioso che turistico ed è uno dei luoghi più affascinanti del Sinai; non si deve assolutamente rinunciare alla salita notturna sul Monte di Mosè (2286 m) in cima al quale vi è una suggestiva piana circondata da montagne granitiche, detta "Anfiteatro dei 70 Saggi di Israele" in quanto qui si fermarono i 70 saggi che accompagnarono Mosè nella sua ascensione poiché solo il profeta potè presentarsi al cospetto di Dio (cfr. Esodo 24, 1-11).
Quella che è la più piccola diocesi del mondo è allo stesso tempo il più antico convento cristiano ancora esistente. Al suo interno la maggiore collezione esistente al mondo di icone e antichi manoscritti.
Il monastero di Santa Caterina è passato indenne fra la corruzione dei secoli poichè tutti , da Maometto, fondatore dell'Islam, ai Sultani turchi, ai Califfi musulmani e a Napoleone, lo presero sotto la loro protezione preservandolo da rapine e distruzioni. Nella sua lunga storia Santa Caterina infatti non è mai stata conquistata, nè danneggiata. Ha attraversato le epoche fino ad oggi, mantenendo intatta l'immagine di luogo sacro della Bibbia.
Fondato dall'imperatore Giustiniano tra il 527 e il 547 d.C. in una valle ai piedi del Monte di Mosè, ad un'altezza di 1570 m, il monastero di Santa Caterina venne ingrandito a più riprese nei periodi successivi; la cinta muraria è di dimensioni e di altezza diverse per la necessità di adattarla alla conformazione della montagna.
Nel racconto biblico gli Ebrei dopo 50 giorni di marcia tra le montagne ed i deserti del Sinai, arrivarono al Monte Horeb sulla cui vetta Mosè ricevette la Tavola della Legge, "I dieci comandamenti" sui quali sono fondate le dottrine ebraica e cristiana.
Il monte Horeb chiamato poi Monte di Mosè (Gebel Musa) divenne la montagna sacra per eccellenza, luogo di pellegrinaggio e di meditazione per i primi cristiani.
Nel 330 d.C. Elena, madre dell'imperatore Costantino, che con il suo celebre editto del 313 d.C. aveva posto fine alle persecuzioni garantendo la libertà di culto, fece costruire una piccola chiesa nel luogo dove si trovava il Roveto ardente.
Nel 527 d.C. Giustiniano ordinò la costruzione di un vero e proprio monastero con una grande basilica, chiamata la "Basilica della Trasfigurazione", protetta da un'imponente cinta muraria contro le incursioni dei beduini, che includeva anche la chiesa primitiva di Santa Elena.
Tra l'VIII e il IX secolo d.C. i monaci ritrovarono il corpo di Santa Caterina che, secondo la tradizione, era stato trasportato dagli angeli sulla cima del Monte Caterina. Il corpo della Santa venne collocato in un sarcofago all'interno della basilica dove si trova tuttora e così venne chiamato "Monastero di Santa Caterina".
Nonostante la conquista da parte degli arabi musulmani del Sinai nel 641 d.C., i monaci continuarono a vivere nel convento, salvaguardati da un editto di Maometto che assicurava loro la sua protezione, provvedimento che prese anche Napoleone durante la Campagna d'Egitto.
I monaci che vivono oggi nel monastero sono 25 ed appartengono ad un ordine monastico che in origine aderiva alla Chiesa di Roma e nel 1260 fu riconosciuto dal papa Innocenzo IV, ma due secoli più tardi, nel 1439, all'epoca del Concilio di Firenze, se ne staccò per seguire la liturgia della Chiesa Ortodossa d'Oriente.
Essi seguono la regola di San Basilio e adottano la lingua greca nelle funzioni liturgiche essendo i monaci stessi in gran maggioranza greci.
Oggi il Monastero è meta di pellegrinaggio sia religioso che turistico ed è uno dei luoghi più affascinanti del Sinai; non si deve assolutamente rinunciare alla salita notturna sul Monte di Mosè (2286 m) in cima al quale vi è una suggestiva piana circondata da montagne granitiche, detta "Anfiteatro dei 70 Saggi di Israele" in quanto qui si fermarono i 70 saggi che accompagnarono Mosè nella sua ascensione poiché solo il profeta potè presentarsi al cospetto di Dio (cfr. Esodo 24, 1-11).
Quella che è la più piccola diocesi del mondo è allo stesso tempo il più antico convento cristiano ancora esistente. Al suo interno la maggiore collezione esistente al mondo di icone e antichi manoscritti.
Il monastero di Santa Caterina è passato indenne fra la corruzione dei secoli poichè tutti , da Maometto, fondatore dell'Islam, ai Sultani turchi, ai Califfi musulmani e a Napoleone, lo presero sotto la loro protezione preservandolo da rapine e distruzioni. Nella sua lunga storia Santa Caterina infatti non è mai stata conquistata, nè danneggiata. Ha attraversato le epoche fino ad oggi, mantenendo intatta l'immagine di luogo sacro della Bibbia.
Il monte Sinai: icona del XVII sec. Mosè, in alto a sinistra, riceve le Tavole della Legge. In alto a destra gli angeli portano il corpo di Santa Caterina all'ultimo riposo, sulla cima del monte che porta il suo nome. All'esterno del monastero si notano tante cappelle. L'icona è stata dipinta nel monastero stesso.
I primi cristiani giunsero al Sinai per allontanarsi dalle persecuzioni del paganesimo Romano, e spinti dalla ricerca di tranquillità e santificazione.
Le prime piccole comunità monastiche si formarono a partire dal III° sec. della nostra era, nei pressi dei luoghi sacri attorno all'Horeb: il roveto ardente, l'oasi di Firan ed altri luoghi del deserto del Sinai.
Un simile cammino spirituale fu percorso da coloro che partirono verso la Terra Santa e le roventi montagne del deserto di Giuda, alla ricerca di santificazione.
La vita dei primi monaci fu difficilissima, messa alla prova da continue privazioni, dalla natura ostile e dagli attacchi dei nomadi ladri. I primi eremiti, vivevano nelle caverne e nella più assoluta povertà, da soli. Solamente nella ricorrenza delle più grandi festività, si raccoglievano attorno al roveto ardente per ascoltare la guida spirituale e ricevere la Santa Comunione. Solamente nella ricorrenza delle più grandi festività, si raccoglievano attorno al roveto ardente per ascoltare la guida spirituale e ricevere la Santa Comunione.
I monaci svolsero anche una funzione missionaria in queste terre desolate. abitate da tribù pagane, tanto che all'epoca della conquista araba del V° secolo, la maggior parte degli abitanti del Sinai erano diventati cristiani.
Finalmente, nel 313, sotto Costantino il Grande, il cristianesimo fu riconosciuto religione di stato, con libertà di culto, in tutto l'Impero. Lo stesso Costantino ed altri imperatori bizantini che gli succedettero, furono favorevoli al monachesimo che prese nuovo slancio.
I monaci del Sinai chiesero protezione alla madre di Costantino, l'imperatrice Elena. Fu Elena che fece costruire nel 330 una piccola chiesa dedicata alla Madre di Dio, e una torre, nel luogo del roveto ardente, che doveva servire da riparo ai monaci del deserto.
Le prime piccole comunità monastiche si formarono a partire dal III° sec. della nostra era, nei pressi dei luoghi sacri attorno all'Horeb: il roveto ardente, l'oasi di Firan ed altri luoghi del deserto del Sinai.
Un simile cammino spirituale fu percorso da coloro che partirono verso la Terra Santa e le roventi montagne del deserto di Giuda, alla ricerca di santificazione.
La vita dei primi monaci fu difficilissima, messa alla prova da continue privazioni, dalla natura ostile e dagli attacchi dei nomadi ladri. I primi eremiti, vivevano nelle caverne e nella più assoluta povertà, da soli. Solamente nella ricorrenza delle più grandi festività, si raccoglievano attorno al roveto ardente per ascoltare la guida spirituale e ricevere la Santa Comunione. Solamente nella ricorrenza delle più grandi festività, si raccoglievano attorno al roveto ardente per ascoltare la guida spirituale e ricevere la Santa Comunione.
I monaci svolsero anche una funzione missionaria in queste terre desolate. abitate da tribù pagane, tanto che all'epoca della conquista araba del V° secolo, la maggior parte degli abitanti del Sinai erano diventati cristiani.
Finalmente, nel 313, sotto Costantino il Grande, il cristianesimo fu riconosciuto religione di stato, con libertà di culto, in tutto l'Impero. Lo stesso Costantino ed altri imperatori bizantini che gli succedettero, furono favorevoli al monachesimo che prese nuovo slancio.
I monaci del Sinai chiesero protezione alla madre di Costantino, l'imperatrice Elena. Fu Elena che fece costruire nel 330 una piccola chiesa dedicata alla Madre di Dio, e una torre, nel luogo del roveto ardente, che doveva servire da riparo ai monaci del deserto.
Il roveto: trapiantato a qualche metro da quello originale, sulle cui radici è stata eretto l'altare sacro della Cappella del Roveto Ardente. Questo roveto è unico esemplare in tutta la penisola del Sinai ed ogni tentativo di trapiantarlo altrove, è fallito.
Il famoso codice siriaco-riscritto, custodito nel monastero: è la più antica traduzione dei Vangeli, datato nel V sec., ma scoperto solo nel 1892
Il campanile della chiesa cristiana "Della Trasfigurazione", che incorpora al suo interno la cappella
Monaci
VITA DI SAN PAOLO PRIMO EREMITA
Beato Girolamo di StridoneVITA DI SAN PAOLO PRIMO EREMITA
San Paolo di Tebe è onorato come il primo abitante del deserto e primo eremita cristiano. Visse la sua ascesi in Egitto, nella regione della Tebaide, fino alla morte nell’anno 341, all’età di 113 anni. Subito dopo la sua nascita al cielo molti vollero imitarne la vita, riempiendo il deserto e creando veri e propri centri monastici, per questo condivide con sant’Antonio il grande il titolo di padre del monachesimo. Ciò che conosciamo di lui lo dobbiamo alla penna di san Girolamo, che raccolse nella Vita Sanctii Pauli primi eremitae le testimonianze orali sulla vita di Paolo. Alla morte del santo Antonio ne seppellì il corpo nei pressi della grotta dove aveva vissuto. Nel XII secolo le reliquie del santo furono trasferite dall’Egitto a Costantinopoli e poste nel monastero della Madre di Dio Peribleptos, per ordine dell’imperatore Manuele (1143-1180). In seguito alle crociate furono trafugate a Venezia, e infine portate a Ofa in Ungheria. Parte della sua testa si trova a Roma. La Chiesa Ortodossa ne fa memoria il 15 gennaio, la Chiesa Copta il 2 di Amshir, i Romano-Cattolici il 10 gennaio. |
Prologo
1. Sono molti coloro che, a più riprese, hanno posto la questione di chi è stato il primo instauratore della vita eremitica. Taluni, infatti, risalendo piuttosto lontano, identificarono tale instauratore, rispettivamente, con Elia e con Giovanni dei quali ci sembra che il primo sia stato più assai d’un semplice monaco e il secondo abbia cominciato a fare il profeta prima ancora della nascita. Altri poi – ed è questa l’opinione universalmente accettata –, sostengono che fu Antonio l’iniziatore di questo ideale, ma la cosa è vera solo in parte, giacché non tanto lui stesso fu il primo di tutti, quanto piuttosto da lui trasse incitamento lo zelo di tutti. Dal canto loro, Amathas e Macario, discepoli di Antonio – fu il primo di essi che diede sepoltura al maestro – affermano a tutt’oggi che il primo instauratore di un tal genere di vita, se non proprio del nome relativo, è stato un certo Paolo di Tebe: opinione questa che io pure condivido. Vi sono di quelli che, abbandonandosi al loro estro inventivo, ti sfornano fantasie di questo tipo: “In una grotta sotterranea viveva un uomo, chiomato dalla testa ai piedi”, e ti architettano cose talmente incredibili che sarebbe un perditempo volerle passare in rassegna. E dato che la loro falsità è semplicemente spudorata, non sembra neppure necessario preoccuparsi di confutare una simile impostura. Pertanto, siccome a proposito di Antonio sono già apparse accurate pubblicazioni, sia in greco che in latino, mi son prefisso di comporre un piccolo scritto sulle prime ed ultime vicende della vita di Paolo. E così ho pensato, più per il fatto che si trattava di notizie inedite, che per un atto di fiducia nelle mie capacità. Come poi lo stesso Paolo abbia trascorso la parte centrale della sua vita, e quali persecuzioni diaboliche abbia dovuto sopportare, nessuno lo può sapere con certezza.
Il tempo delle persecuzioni
I santi Antonio e Paolo, Cairo – Coptic Museum |
2. Al tempo di Decio e di Valeriano, persecutori dei cristiani, allorquando Cornelio a Roma e Cipriano a Cartagine affrontarono con gioia il martirio, una selvaggia crudeltà seminò distruzione in molte Chiese dell’Egitto e della Tebaide. La brama più ardente di ogni cristiano, in tali circostanze, era quella di cadere sotto la spada, per il nome di Cristo. Ma l’astuto nemico era tutto preso dal desiderio di uccidere le anime, non i corpi, e quindi escogitava i più squisiti supplizi, capaci di far morire a poco a poco. Come scrive lo stesso Cipriano, che subì il martirio nella persecuzione di Valeriano, “non era concesso di morire a quanti lo bramavano”[1].
Perché a tutti sia nota la crudeltà di costui, voglio qui ricordare un paio d’esempi. 3. Trovatosi di fronte ad un martire che perseverava nella fede e trionfava in mezzo alle torture dei cavalletti e delle lamine arroventate, il tiranno lo fece cospargere tutto quanto di miele, ed esporre supino, con le mani legate dietro la schiena, ai raggi cocenti del sole. Si prefiggeva naturalmente di far cedere alle punture delle mosche quel martire, che aveva superato il supplizio delle lamine arroventate. Un altro martire, ancora nel fiore della sua giovinezza, egli lo fece portare in un giardino ricolmo di delizie. Quivi, fra candidi gigli e vermiglie rose, mentre lì accanto serpeggiava un ruscello col suo dolce mormorio, e tra le foglie degli alberi spirava un venticello dal suono leggero, lo fece adagiare sopra un letto di piume, e perché non potesse levarsi da quella posizione, lo fece avviluppare da una fitta rete di soavi ghirlande. Mentre si allontanavano tutti gli altri, si fece avanti una meretrice di stupenda bellezza e cominciò ad abbracciare il collo del giovane con teneri amplessi, e poi – cosa peccaminosa perfino a dirsi – a toccargli con le mani le parti virili, affinché, una volta eccitato quel corpo alla libidine, vi si buttasse sopra come una spudorata trionfatrice. Quel soldato di Cristo non sapeva che fare né dove voltarsi. Colui che non si era piegato davanti ai tormenti, stava per essere sopraffatto dal piacere dei sensi. Infine, ispirato dal cielo, si tagliò con un morso la lingua e la sputò in faccia a quella donna che lo stava baciando; fu così che l’intensità del dolore fisico lo rese capace di superare gl’istanti della libidine[2].
Paolo fugge nel deserto
Fotios Kontoglou, san Paolo di Tebe |
4. Orbene, mentre accadevano tali fatti, nella Tebaide inferiore, Paolo, all’età di circa sedici anni, assieme a sua sorella già maritata, si trovò, dopo la morte di ambedue i genitori, in possesso di una vasta eredità. Era molto istruito nelle lettere greche ed egizie ed aveva un animo mite e traboccante di amore verso Dio. Quando scoppiò la bufera della persecuzione, si ritirò in una sua villa piuttosto lontana ed appartata. Ma dove mai non sospingi il cuore degli uomini, o fame esecranda dell’oro? Il marito della sorella concepì il disegno di denunciare colui, che avrebbe dovuto nascondere. Come suole accadere, non riuscirono a smuoverlo da una tale scelleratezza né le lacrime della moglie, né l’affinità di sangue, né il timor di Dio che scruta ogni cosa dall’alto. Gli stava sempre alle costole, lo incalzava, sfoderava tutta la sua crudeltà, né più né meno come avrebbe dovuto esercitare la sua pietà. Ben se ne accorse l’avvedutissimo giovane e cercò rifugio in luoghi montuosi e deserti, per aspettarvi la fine della persecuzione. Ma eccolo poi tramutare in una scelta volontaria quel ch’era stato per lui una mera necessità. 5. Dopo aver ripetuto più volte la duplice operazione di avanzare a poco a poco e di concedersi delle pause nel cammino, s’imbatté finalmente in un monte roccioso, ai piedi del quale si apriva una caverna non molto vasta, ostruita da una pietra. Rimossa quest’ultima – giacché si trova in ogni uomo una grande bramosia di conoscere le realtà più nascoste –, perlustrando l’interno con avida cura, vi scorse un ampio vestibolo, aperto verso l’alto; tuttavia lo riparava, a guisa di tetto, una vecchia palma dai lunghissimi rami, che lasciava filtrare tanta luce da mettere in mostra una sorgente cristallina; le sue acque, appena scaturite dalla terra, subito, attraverso un piccolo foro, venivano risucchiate dalla stessa. Inoltre, sui fianchi corrosi del monte, sorgevano parecchie abitazioni, nelle quali si potevano scorgere incudini e martelli, ormai arrugginiti, di quelli che servono a coniar le monete. Infatti, riferiscono dei testi egiziani che là si trovava una zecca clandestina, all’epoca in cui Antonio si unì a Cleopatra. 6. Pertanto, affezionatosi a quella dimora che pareva gli venisse elargita dal Signore, Paolo vi trascorse tutta la vita nella preghiera e nel raccoglimento. La palma gli forniva cibo e vestito. E perché la cosa non appaia impossibile a nessuno, io chiamo a testimoni Gesù e i suoi angeli, di aver visto e di vedere tuttora, in quella parte del deserto che si trova al confine tra la Siria e la regione dei Saraceni, alcuni monaci, dei quali uno visse rinchiuso per trent’anni, cibandosi unicamente di pane d’orzo e d’acqua fangosa, e un altro, vivendo in una vecchia cisterna (che i Siri nella propria lingua chiamano Gubba), si cibava soltanto di cinque fichi al giorno. Tali fatti sembreranno incredibili solamente a coloro, i quali non credono che tutto è possibile a chi si lascia condurre dalla fede.
Antonio va alla ricerca di Paolo
7. Ma torniamo a quel punto, da cui ho preso le mosse. Mentre Paolo, giunto ormai all’età di centotredici anni, conduceva, qui sulla terra, una vita tutta celeste, Antonio, che aveva novant’anni, come lui stesso era solito dire, abitava in altro luogo solitario. Un giorno s’affacciò nella mente di Antonio l’idea che nel deserto non avesse preso domicilio nessun altro monaco perfetto, quanto era lui. Ma durante la notte, mentre dormiva, gli fu rivelata l’esistenza d’un altro monaco, assai più perfetto di lui, e gli venne ordinato di partire, per andare a visitarlo. Non appena spuntò l’alba, il venerando vecchio, sostenendo su di un bastone le deboli membra, si mise in viaggio per una meta a lui sconosciuta. Ormai era giunto il mezzogiorno e il sole dall’alto bruciava coi suoi raggi cocenti; ma egli non desisteva dal cammino intrapreso, dicendo: “Ho piena fiducia che il mio Dio mi farà vedere un giorno il compagno che mi ha promesso”. Non riuscì a dire altro e subito si vide davanti una figura, metà uomo e metà cavallo, come quella che la fantasia dei poeti ha chiamato ippocentauro. A quella vista, si arma la fronte col segno della croce, e domanda: “Ehi, tu, puoi dirmi in quale parte di questo deserto abita il servo di Dio?”. Ma quello, fremendo un non so che di barbaro, spezzando le parole più che pronunciarle, con la sua orrida bocca, irta di setole, si studiò di parlare soavemente. E, tenendo la mano destra, indicò la via desiderata; poi subito svanì dalla vista del monaco stupefatto, superando con rapido volo l’immensa distesa dei campi. Peraltro, non possiamo sapere se tutto ciò fu prodotto da una finzione del demonio, per incutergli paura, ovvero se il deserto, così fecondo di mostruosi animali, mette pure al mondo una simile bestia.
8. Pieno di stupore, Antonio procede ancora nel suo cammino, rimuginando tra sé e sé quanto aveva osservato. Ma ecco che subito, in mezzo a una convalle pietrosa, gli appare davanti un omiciattolo, dal naso adunco, dalla fronte irta di corna, con la parte inferiore del corpo terminante in zampe di capra. A tale spettacolo, Antonio, come un valoroso guerriero, si armò con lo scudo della fede e con la corazza della speranza[3]; ciò nondimeno, il suddetto animale, quale pegno di pace, gli offriva dei datteri per il suo sostentamento nel viaggio. Preso atto di quel gesto, Antonio si fermò e gli chiese chi fosse, ottenendo la seguente risposta: “Io sono un essere mortale, uno degli abitanti del deserto, che i pagani, delusi da diversi errori, onorano sotto il nome di Fauni, o di Satiri, o di Incubi. Ho una missione da parte dei miei compagni. Vogliamo infatti pregarti di intercedere per noi presso il comune Signore[4], che ben sappiamo esser venuto un giorno sulla terra, per la salvezza del genere umano: in tutto quanto il mondo si è diffusa la fama del suo nome”. Mentre quello così parlava, il volto del vecchio pellegrino si rigava di lacrime copiose, a testimoniare quella grande letizia che inondava il suo cuore. Gioiva infatti della gloria di Cristo e della sconfitta di Satana; e meravigliandosi al tempo stesso di riuscir a comprendere il linguaggio di quello, percuoteva la terra col bastone e diceva: “Guai a te, Alessandria, che al posto di Dio adori dei mostri! Guai a te, o città meretrice, nella quale si son dati convegno i demoni del mondo intero! Che dirai adesso? Le fiere proclamano Cristo, e tu veneri i mostri, al posto di Dio?”. Non aveva ancora terminate queste parole e subito la bestia cornuta fuggì via, come se andasse volando. Né alcuno si lasci trascinare dall’incredulità, di fronte a un simile racconto, che risulta confermato e universalmente testimoniato, al tempo dell’imperatore Costanzo. A quell’epoca infatti, uno di tali uomini fu condotto vivo ad Alessandria; così poté offrire di sé uno spettacolo straordinario a tutto il popolo; e dopo la sua morte, per sottrarlo all’azione corrompitrice del calore estivo, fu cosparso di sale e poi trasportato ad Antiochia, perché potesse vederlo l’imperatore[5].
L’incontro dei due asceti
S. Sassetta, Galleria d’Arte Nazionale Washington Hiria |
9. Ma per tornare al mio tema principale, dirò che Antonio proseguiva nel cammino intrapreso, incontrando nient’altro che orme di fiere, nella vasta solitudine del deserto. Non sapeva che fare, né dove andare. Ormai eran passati due giorni: ne restava uno solo per conservare la sua incrollabile fiducia di non essere giammai abbandonato da Cristo. Vegliando, trascorse la seconda notte in preghiera e, al primo incerto chiarore dell’alba, scorse a poca distanza una lupa, che ansimava per l’arsura della sete e s’avvicinava, strisciando, verso i piedi del monte. Antonio la seguì con la vista, e quando la bestia si fu allontanata, egli si avvicinò alla spelonca e cominciò a spingere dentro lo sguardo; ma la sua curiosità fu delusa, giacché l’oscurità di quel luogo gl’impediva la vista. Ma tuttavia, come dice la Scrittura, “l’amore perfetto caccia la paura”[6], cosicché l’avveduto esploratore, con passi felpati e col fiato sospeso, entrò nella grotta, avanzando pian piano e sostando più volte, con l’orecchio teso, per captare un qualsiasi rumore. Finalmente, tra l’orrore di quella cieca notte, riuscì ad avvistare un lume. Mentre si affrettava, con brama crescente, eccolo inciampare col piede in una pietra, facendo rumore. L’udì il beato Paolo, e subito chiuse e sprangò la porta, fino allora spalancata, del suo rifugio. Allora Antonio, prostratosi davanti ad essa, vi rimase fino all’ora sesta, ed anche più oltre, a supplicarne l’apertura, dicendo: “Tu ben sai chi son io, donde vengo e perché. Riconosco di non meritare affatto di vederti; tuttavia, non me ne andrò se non ti vedrò. Tu che accogli le bestie, perché mai cacci via un uomo? Ti ho cercato e ti ho trovato: ora picchio alla porta perché mi si apra. Se non otterrò questa grazia, aspetterò la morte qui, davanti alla tua porta: certamente vorrai almeno seppellire il mio cadavere”. Così ripeteva, senza mai stancarsi, là rimanendo immobile e fisso[7]; e a lui brevemente rispose l’eroe, nel seguente tono[8]: “Non c’è nessuno che prega, in modo da minacciare; nessuno che lanci calunnie, nell’atto di piangere. E poi ti meravigli ch’io non voglia riceverti, dal momento che sei venuto qui per morire?”. Così, scherzando con le parole, Paolo spalancò la sua porta e subito, abbracciandosi l’un l’altro, i due si salutarono chiamandosi per nome, e insieme ringraziarono il Signore. 10. Scambiatisi il bacio di pace, Paolo si sedette e così cominciò a dire ad Antonio: “Eccoti davanti colui che con tanta fatica hai cercato: le sue membra sono già imputridite per la vecchiaia, e un un’ispida canizie lo ricopre. Ecco: tu vedi un uomo, che tra poco sarà polvere. Ma, poiché l’amore sa tollerare ogni cosa, raccontami, ti prego, come si comporta il genere umano. Nelle antiche città, sorgono forse dei nuovi edifici? Chi si trova alla guida del mondo? Esistono ancora degli uomini trascinati dall’errore dell’idolatria?”. Mentre così discorrevano, videro che un corvo[9] s’era posato sopra un ramo dell’albero e che di là, tornando a volare lentamente, venne poi a deporre un intero pane davanti ai due monaci stupefatti. Dopo che il corvo se ne fu andato: “Ecco”, esclamò Paolo, “il Signore ci ha mandato il nostro pranzo: in Lui c’è davvero pietà e misericordia. Sono già sessant’anni che io ricevo regolarmente mezzo pane; ma ora, per la tua venuta, Cristo ha raddoppiato la razione ai suoi soldati”.
11. Pertanto, dopo aver nuovamente ringraziato il Signore, si sedettero entrambi sul margine della limpida sorgente. Allora però nacque tra loro una contesa, per vedere chi dovesse spezzare il pane; la disputa si protrasse fin quasi al tramonto. Paolo si sforzava di convincere Antonio, facendo leva sulle regole dell’ospitalità; Antonio, dal canto suo, rifiutava, puntando sul diritto dell’età. Finalmente, presero la decisione di afferrare ciascuno quel pane dalle due parti opposte e di tirare verso di sé, fino quando gli restasse nelle mani la propria razione. Dopo aver mangiato, bevvero un po’ d’acqua della sorgente, accostandovi sopra la bocca, e poi, offrendo a Dio il sacrificio di lode, vegliarono per tutta la notte. E quando già era spuntato un altro giorno sulla terra, il beato Paolo rivolse ad Antonio le seguenti parole: “Già da tempo, o fratello, io sapevo che tu abitavi da queste parti; e da tempo il Signore mi ti aveva promesso in qualità di compagno. Ma dato che ormai è vicino il tempo del mio riposo e di quello che ho sempre agognato, ossia dissolvermi ed essere con Cristo, non mi resta, una volta compiuto il cammino della vita, che ricevere la corona dei giusti. E tu sei stato inviato dal Signore, per ricoprire di terra questo mio corpiciattolo, o meglio per rendere la terra alla terra”. 12. Udite queste parole, Antonio, piangendo e sospirando, lo supplicava di non abbandonarlo e di prenderlo con sé come compagno del suo viaggio. E lui, per tutta risposta: “Tu non devi cercare il tuo vantaggio, ma quello degli altri. A te giova di certo abbandonare il peso del corpo e seguire l’Agnello: ma anche a tutti gli altri tuoi fratelli giova di essere ancora ammaestrati dal tuo esempio. Perciò ti prego: se non ti pesa di troppo, va pure e portami il mantello che ti ha regalato il vescovo Atanasio, per avvolgere in esso il mio povero corpo”. Questa la preghiera che rivolse il beato Paolo, non già perché gli stesse particolarmente a cuore che il suo corpo fosse deposto nudo o coperto, a marcire nella terra – egli infatti per così lungo tempo s’era vestito con foglie di palma –, ma perché Antonio, allontanandosi da lui, provasse di meno il dolore della sua scomparsa. Antonio, tutto preso da stupore per aver sentito parlare di Atanasio e del suo mantello, come se in Paolo vedesse lo stesso Cristo, e nella sua persona venerasse lo stesso Dio, non osò replicare in nessuna maniera; ma, piangendo in silenzio e baciatigli occhi e mani, prese la via del ritorno verso il monastero, che in seguito venne occupato dai Saraceni. Ma i suoi passi non potevano tener dietro allo slancio del suo cuore. Infatti, sebbene il carico degli anni avesse oramai fiaccato il suo corpo, interamente minato dai digiuni, tuttavia la sua forza d’animo trionfava sulla vecchiaia.
Dormizione di Paolo e sua sepoltura
13. Al termine del cammino, giunse finalmente, affaticato e tutto ansimante, alla propria dimora. Gli si fecero incontro due discepoli, che avevano cominciato a servirlo già vecchio, e gli chiesero: “O padre, dove ti sei fermato così a lungo?”. Ed egli rispose: “Guai a me peccatore, che porto falsamente il nome di monaco. Io vidi Elia, vidi Giovanni nel deserto, ma ora, in verità, ho visto Paolo in Paradiso”. Poi si chiuse nel silenzio, e percotendosi il petto con la mano, tirò fuori il mantello dalla sua celletta. E pregandolo i discepoli di esporre con maggiori dettagli di che cosa si trattava, esclamò: “C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare”[10]. 14. Poi subito uscì, e, senza toccare nemmeno un boccone, riprese il cammino già compiuto, assetato soltanto di lui, bramoso di vedere lui solo, mirando lui solo con gli occhi e con tutta la mente. Temeva infatti, come poi accadde realmente, che durante la sua assenza, Paolo rendesse la sua anima a Cristo Signore. Dopo che ormai era spuntato il secondo giorno e gli restavano ancora da percorrere tre ore di cammino, egli ebbe la visione di Paolo che saliva in cielo, splendente di luce chiarissima, in mezzo alle schiere degli angeli, tra i cori dei Profeti e degli Apostoli. E subito, prostrandosi con la faccia per terra, si spargeva di sabbia la testa, e piangendo e gridando, diceva: “O Paolo, perché mi abbandoni? Perché te ne vai senza neppure un saluto? Così tardi ho potuto conoscerti e così presto ti allontani da me?”. 15. Il beato Antonio riferiva più tardi, d’aver compiuto quel pezzo di strada che ancora gli restava da fare, con passo talmente veloce, come se volasse a guisa d’uccello. E non senza motivo; infatti, entrato nella spelonca, si vide davanti il corpo esanime di Paolo, piegato sulle ginocchia, con la testa eretta e le mani distese verso il cielo. Dapprima, pensando che Paolo fosse ancor vivo, si mise lui pure a pregare. Ma poi, non udendo nessuno di quei sospiri, che di solito accompagnavano la preghiera di Paolo, si gettò, piangendo, a baciarlo; si rese conto allora, che perfino il cadavere del santo, mostrando il dovuto atteggiamento della preghiera, continuava a pregare quel Dio, a cui aspira ogni vita.
16. Avvolto pertanto il cadavere e trasportatolo fuori dalla spelonca, cantando pure gli inni e i salmi, secondo la tradizione cristiana, Antonio si doleva di non avere una zappa con cui scavargli la fossa. Ondeggiando così tra vari pensieri, ed esaminando tra sé e sé numerosi progetti, diceva: “Se io torno al monastero, devo compiere un cammino di quattro giorni; se resto qui, non approdo assolutamente a nulla. Morirò dunque, com’è giusto, qui, vicino al tuo soldato, o Cristo, e cadendo, esalerò l’estremo respiro”. Mentre così ragionava nella mente, ecco due leoni arrivare di corsa dall’interno del deserto, con le giubbe svolazzanti sul collo. Al vederli, Antonio dapprima fu preso da grande paura. Ma poi, volgendo la sua mente a Dio, stette lì ad aspettarli con estremo coraggio, come se guardasse due colombe; e i leoni, correndo direttamente verso il cadavere del santo vegliardo, gli si fermarono accanto, e, dimenando le code, si sdraiarono ai suoi piedi, lanciando possenti ruggiti così da far intendere che essi piangevano nel miglior modo possibile. Poi, non molto lontano di là, cominciarono a scavare la terra con le zampe, e gareggiando tra loro nel tirar fuori la sabbia, fecero una fossa capace di accogliere una sola persona. Subito dopo, come se chiedessero un compenso per il loro servizio, movendo le orecchie ed abbassando la testa, si accostarono ad Antonio, lambendogli le mani ed i piedi. Egli comprese che gli chiedevano la sua benedizione. Senza il più piccolo indugio, dandosi con entusiasmo a celebrare le lodi di Cristo, per il fatto che anche dei muti animali ne afferravano l’essere divino, esclamò: “Tu, o Signore, senza il cui cenno non scende una foglia dall’albero, né cade per terra uno solo dei passeri, concedi loro una ricompensa, come tu la sai dare”[11]. E con un cenno della mano, ordinò loro di andarsene. Dopo che i leoni si furono allontanati, Antonio curvò le sue vecchie spalle sotto il peso delle sante spoglie e, depostele nella fossa, vi gettò sopra della sabbia e vi eresse un tumulo secondo l’usanza. E appena si riaccese la luce del giorno seguente, affinché il pio erede non rimanesse privo di una parte dei beni di colui ch’era morto senza far testamento, prese con sé la tonaca, che Paolo stesso, alla maniera delle ceste, s’era fatta di propria mano, intessendola con foglie di palma. E così, ritornato alMonastero, narrò tutto quanto ai discepoli nei più piccoli dettagli, e poi sempre, nei giorni solenni di Pasqua e di Pentecoste, volle mettersi la tunica di Paolo.
Esortazioni conclusive
17. Al termine di questa piccola opera, mi piace domandare a coloro che non riescono nemmeno a valutare l’enorme quantità delle proprie sostanze, o che rivestono di marmi le proprie dimore, o che in un sol filo di pietre preziose impiegano il valore di interi possedimenti[12]: a questo vecchio, privo di tutto, che cosa ebbe mai a mancare? Voi bevete in coppe sfolgoranti di gemme, quello provvide al naturale bisogno della sete, attingendo l’acqua col cavo delle mani; voi ricamate in oro i vostri abiti, quello non ebbe neppure l’indumento del più disprezzato dei vostri schiavi. Ma, per contro, a quel poveretto è spalancato il paradiso, mentre la Geenna inghiottirà voialtri, anche se carichi d’oro. Quello, benché nudo, serbò tuttavia la veste di Cristo; voi, rivestiti di seta, perdeste l’abito di Cristo. Paolo giace coperto d’umilissima polvere, ma per risorgere alla gloria; voi siete oppressi dai marmi decorati dei vostri sepolcri, ma in attesa di bruciare con tutte le vostre ricchezze. Vi prego, abbiate pietà di voi stessi: risparmiate almeno le ricchezze che vi son care. Perché avvolgete anche i vostri morti con vesti cariche d’oro? Perché non disarma l’ambizione in mezzo ai lutti e alle lacrime? Forse che i cadaveri dei ricchi non possono imputridire, se non sono rivestiti di seta?
18. Ti prego, o lettore, chiunque tu sia, di ricordarti del peccatore Girolamo, il quale, se il Signore gli offrisse una scelta, preferirebbe certamente una tunica di Paolo, assieme ai suoi meriti, molto più delle porpore dei re, insieme con tutte le loro ansie.
Estratto da: “Opere scelte di san Girolamo” vol. I, UTET 1971, 219-235.
Tropario. Tono IIIIspirato dallo Spirito, sei stato il primo ad abitare nel deserto emulando lo zelante Elia; come colui che imitava gli angeli, fosti reso noto al mondo, da sant’Antonio il Grande. Paolo giusto, prega Cristo Dio che ci conceda la sua grande misericordia.
Kontakion. Tono IIIRiuniamoci oggi e lodiamo con inni colui che si effonde come un raggio del Sole spirituale: ecco vieni, illumina chi è nelle tenebre dell’ignoranza, conduci tutti gli uomini verso l’alto, venerabile Paolo, ornamento di Tebe e solido fondamento dei padri e degli asceti.
_______________________________NOTE[1] Ep. LVI.[2] Il Martirologio Romano ricorda i santi martiri della Tebaide il 28 luglio.[3] I Tessalonicesi 5, 8.[4] Si deve a questo racconto, ed a quello al cap. 16 (la benedizione ai due leoni), la fama che sant’Antonio gode in occidente quale protettore degli animali (nota a cura di T. C.).[5] Si tratta di Costanzo, figlio di Costantino il grande.[6] I Giovanni 4, 18.[7] Virgilio, Eneide, II, 650.[8] Ib, VI, 672.[9] Cfr. III libro dei Re, 17.[10] Ecclesiaste 3, 7.[11] Da questo episodio si è originato l’uso, vivo ancor oggi presso i Romano-Cattolici, di far benedire gli animali nel giorno della festa sant’Antonio (nota di T. C.).[12] Tertulliano, De cultu fem., I, 9.
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