4/05/2019

IVAN OSTROUMOFF: LA RISPOSTA ORTODOSSA ALLA DOTTRINA LATINA DEL PURGATORIO AL CONCILIO DI FERRARA-FIRENZE


Introduzione

L’insegnamento ortodosso sullo stato delle anime dopo la morte è uno di quegli argomenti spesso non pienamente capiti neppure dagli stessi cristianoortodossi, poiché il relativamente recente insegnamento latino sul “purgatorio” ha causato confusione perfino nelle menti delle persone più lontane dal cattolicesimo. La stessa dottrina ortodossa, comunque, spesso non è esposta in forma chiara e precisa. Forse l’esposizione più concisa di tale dottrina è fondata sugli scritti di san Marco d’Efeso al concilio di Firenze nel 1439, convocato particolarmente per rispondere, tra le altre cose, all’insegnamento latino sul purgatorio. Questi scritti ci sono particolarmente preziosi poiche appartengono agli ultimi padri “bizantini” prima dell’era moderna e di tutte le sue confusioni teologiche. Costoro hanno concentrato la nostra attenzione alle fonti della dottrina ortodossa e ci hanno istruito su come avvicinare e capire le fonti stesse. Tali fonti sono: la Sacra Scrittura, le omelie dei Padri, la liturgia della Chiesa, le vite dei santi e determinate rivelazioni e visioni della vita dopo la morte come quelle contenute nel quarto libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno.
Oggi i teologi accademici tendono a diffidare sugli ultimi due o tre generi di fonti, poiché esse, quando parlano di questo soggetto, sono spesso scomode. Così questi intellettuali, qualche volta, preferiscono mantenere una “agnostica reticenza” verso tale tema. D’altra parte gli scritti di san Marco, ci mostrano l’origine delle genuine fonti teologiche ortodosse; coloro che sentono l’imbarazzo per queste testimonianze, rivelano, forse, d’avere contratto un’insospettata infezione d’incredulità moderna.
Dei quattro interventi di san Marco sul purgatorio al concilio di Firenze, la prima omelia ha la sintesi più concisa della dottrina ortodossa contro gli errori latini. Essa è stata principalmente compilata da Marco. Le altre repliche contengono soprattutto argomentazioni per rispondere a questioni latine più specifiche.
Il “capitolo latino” contro il quale san Marco replica è quello scritto dal cardinale Giuliano Cesarini e fornisce l’insegnamento latino già definito all’“unione” nel concilio di Lione (1270), sullo stato delle anime dopo la morte. Quest’insegnamento colpisce il lettore ortodosso (proprio com’è stato colpito san Marco) perché è interamente permeato da un carattere “letterali stico” e “legalistico”. Dal concilio di Lione i latini cominciarono a concepire il cielo e l’inferno come qualche cosa di “finito” e “assoluto”. In tale visione i beati e i dannati dovrebbero possedere già la pienezza dello stato che avranno dopo l’Ultimo Giudizio. In tal modo non c’è alcun bisogno di pregare per chi è in cielo (il cui stato è già perfetto) o per chi è in inferno (giacché quest’ultimi non potranno mai essere liberati o purificati dai loro peccati). Tuttavia per molti dei fedeli morti in uno stato intermedio – non ancora abbastanza perfetti per il cielo, ma non così cattivi da meritare l’inferno –, la logica del ragionamento latino ha richiesto un terzo luogo di purificazione, il “purgatorio”. In esso la persona, i cui peccati sono già stati perdonati, viene punita per “soddisfare” le sue colpe in modo da essere sufficientemente purificata per poter entrare in cielo. Queste questioni legalistiche di “giustizia” puramente umana (che finiscono per negare proprio la suprema bontà di Dio e il suo amore verso l’umanità), sono state sostenute dai latini servendosi di letteralistiche citazioni dai Padri e da varie visioni. Quasi tutte le interpretazioni sono sostenute in forma completamente arbitraria perché nemmeno gli antichi Padri latini hanno parlato di un luogo nei termini sottesi dal concetto di “purgatorio”, ma solo di una “purificazione” dai peccati dopo la morte. Alcuni autori latini vedono questa purificazione come un “fuoco” inteso forse allegoricamente.
D’altra parte nella dottrina ortodossa, secondo l’insegnamento di san Marco, il fedele che è morto con dei piccoli peccati non confessati, o che non ha sviluppato frutti di pentimento per i propri peccati confessati, viene deterso sia nel primo che nel secondo caso, passando nella prova della morte e patendone terrore o, dopo la morte stessa, quando viene confinato (ma non permanentemente) in inferno e da esso viene liberato attraverso le preghiere, le liturgie della Chiesa e i buoni atti compiuti dai fedeli a suo vantaggio. Pure i peccatori destinati all’eterno tormento possono avere un certo sollievo al loro patire attraverso questi mezzi. Ora non esiste alcun fuoco che tormenta i peccatori (visto che il fuoco eterno comincerà a tormentarli solo dopo l’Ultimo Giudizio) e ancor meno essi vengono tormentati da questa pena in qualche terzo luogo come il purgatorio. Tutte le visioni del fuoco viste dagli uomini sono immagini o profezie di ciò che sarà nell’età futura. Ogni perdono dei peccati dopo la morte avviene solamente per la bontà di Dio, bontà che si estende pure a coloro che sono in inferno, con la cooperazione delle preghiere degli uomini e non perché quest’ultimi “pagano” un debito o “soddisfano” l’ira divina per ricevere in cambio il perdono dei peccati del defunto.
Dovrebbe essere posta particolare attenzione che gli scritti di san Marco riguardano principalmente lo specifico stato delle anime dopo la morte e sfiorano appena quanto accade all’anima immediatamente dopo la morte stessa. Sul secondo punto c’è un’abbondante letteratura ortodossa, ma quest’argomento non è stato oggetto di discussione a Firenze.

Introduzione tratta da:
FR. SERAPHIM ROSE, The Soul After Death.



La risposta ortodossa alla dottrina latina del purgatorio[1]

Nella terza seduta del concilio, (il cardinale) Giuliano, dopo le mutue congratulazioni, mostrò i punti principali della discussione dottrinale tra greci e latini:
a.       la processione dello Spirito Santo;
b.      gli azimi nell’Eucarestia;
c.      il purgatorio e
d.      la supremazia papale.

Egli, in seguito, domandò quale di questi soggetti dovesse essere discusso per primo. I greci differirono la discussione del primo punto all’apertura di un concilio ecumenico, promettendo di dare una rapida risposta sugli altri punti appena si fossero consigliati con l’Imperatore. L’Imperatore fissò uno dei due ultimi soggetti per cominciare la discussione[2]. I latini furono d’accordo per discutere sul purgatorio. Nella quinta seduta (il 4 giugno) il cardinale Giuliano fornì la seguente definizione sulla dottrina latina del purgatorio: “Dal tempo degli Apostoli – disse – la Chiesa di Roma ha insegnato che le anime dipartendosi da questo mondo, pure e libere da ogni macchia, vale a dire, le anime dei santi, entrano immediatamente nella beatitudine. Le anime delle persone che, dopo il battesimo, hanno peccato ma che in seguito si sono sinceramente pentite confessando i propri peccati, per l’incapacità di compiere l’epitímia assegnata loro dal padre spirituale, o per l’insufficienza dei frutti di pentimento con i quali fanno ammenda dei peccati, vengono purificate dal fuoco del purgatorio, alcune prima, altre dopo, a seconda dei peccati stessi. Solo dopo la loro purificazione, partono per la terra dell’eterna gioia. Le preghiere del prete, le liturgie e gli atti di carità sono molto utili per la loro purificazione. Le anime di coloro che sono morti in peccato mortale o con il peccato originale, sono invece dirette alla dannazione”[3]. I greci richiesero un’esposizione scritta di questa dottrina. Quando la ricevettero, Marco d’Efeso e Bessarione di Nicea scrissero ciascuno dei commenti su di essa. Tali commenti sono serviti come risposta generale alla dottrina latina[4]. Dando questa risposta (il 14 giugno), Bessarione ha spiegato la differenza sull’argomento tra la dottrina greca e quella latina. Il latini, disse, permettono che da ora fino al giorno dell’ultimo giudizio, le anime vengano purificate nel fuoco, venendo così liberate dai loro peccati; cosicché, chi ha maggiormente peccato resti un tempo maggiore a subire la purificazione, mentre chi ha peccato meno venga assolto al più presto, con l’aiuto della Chiesa. Nella vita futura essi sarebbero ammessi all’eternità e non al fuoco del purgatorio. Così i latini ammettono l’esistenza sia di un fuoco temporaneo che di un fuoco eterno chiamando il primo, fuoco del purgatorio. D’altra parte i greci insegnano solo l’esistenza di un unico fuoco, quello eterno, perché concepiscono la punizione temporale delle anime in peccato come il temporaneo patimento che nasce dal vivere in una dimensione di oscurità e di dolore. Qui la punizione consisterebbe nell’essere privati della luce divina. Colui che viene purificato è liberato da un luogo di oscurità e di dolore, non da un fuoco. La liberazione avviene grazie alle preghiere, alla santa eucaristia e agli atti di carità. I greci credono pure che fino all’unione delle anime con i corpi, le anime dei peccatori non soffrono di una totale punizione, così pure quelle dei santi non godono di una gioia completa. Tuttavia i latini vanno d’accordo con i greci nel primo punto, non ammettendo altro, quando affermano che le anime hanno già ricevuto la loro piena ricompensa celeste[5]. Nella seduta seguente i latini presentarono una difesa della loro dottrina sul purgatorio. Partendo dalle conclusioni della risposta data loro dai greci, essi cercarono di verificare la loro dottrina sul purgatorio con le parole di 2 Mac. 12, 42-46, dove viene affermato che Giuda Maccabeo “ha inviato a Gerusalemme un’offerta per il peccato” rimarcando che questo “era un santo e buon pensiero poiché egli ha fatto una riconciliazione per un morto, per poterlo liberare dal suo peccato”. I latini citarono pure le parole di Gesù Cristo, “Chiunque parlerà contro lo Spirito Santo, non sarà perdonato né in questo né nel prossimo mondo” (Mt. 12, 32). [Con tal affermazione sarebbe per loro implicito che esistono dei peccati che possono essere scontati nel prossimo mondo]. Tuttavia la loro difesa era particolarmente fondata sulle parole dell’apostolo Paolo (I Cor. 3, 11-15): “Nessuno infatti, può porre altro fondamento che quello che è stato posto, cioè Gesù Cristo. Ora, se uno costruisce sopra questo fondamento con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno si renderà manifesta; infatti, il giorno la renderà manifesta, perché si rivelerà nel fuoco e il fuoco proverà quel che vale l’opera di ciascuno. Se l’opera di qualcuno che ha costruito sopra rimarrà, egli ne riceverà ricompensa; se l’opera di qualcuno invece sarà consumata dal fuoco, ne avrà danno, però si salverà, ma come attraverso il fuoco”. I latini fecero inoltre diverse citazioni dalle opere dei padri orientali: Basilio il Grande, Epifanio di Cipro, Giovanni Damasceno, Dionigi l’Aeropagita, Teodoreto, Gregorio di Nissa; e dai padri occidentali: Agostino, Ambrogio e Gregorio il Grande. Non dimenticarono di citare l’autorità della Chiesa di Roma in difesa della loro dottrina facendo uso del loro consueto metodo sofista. A tutto questo la parte ortodossa diede una risposta chiara e soddisfacente[6]. Gli ortodossi rimarcarono che le parole citate dal libro dei Maccabei e quelle di nostro Signore, possono solo verificare che alcuni peccati saranno perdonati dopo la morte; ma non si sa con alcuna certezza se ciò avverrà attraverso la punizione del fuoco o attraverso altri mezzi. Inoltre, con cosa avviene il perdono dei peccati? Con la punizione attraverso il fuoco o con altri patimenti? Solo una di queste cose può accadere: o la punizione o il perdono, non entrambe contemporaneamente. Per chiarire le parole dell’Apostolo, gli ortodossi hanno citato il commento di san Giovanni Crisostomo, il quale, usa la parola “fuoco”, attribuendogli un significato eterno e non provvisorio, come dovrebbe essere il fuoco del purgatorio. Il santo nei termini “legno”, “fieno”, “paglia”, vede gli atti cattivi, alimento per il fuoco eterno; la parola giorno significherebbe il giorno dell’ultimo giudizio; mentre la frase “verrà salvato come attraverso il fuoco” significa la conservazione e la durata dell’esistenza del peccatore attraverso la punizione della sofferenza. Mantenendo questo chiarimento, gli ortodossi rigettarono quello dato da sant’Agostino, il quale fondandosi sulle parole “sarà salvato”, le comprende nel senso di “avrà una grande gioia”. A partire da questo presupposto si è avuta, di conseguenza, un’interpretazione ben differente. “È proprio giusto supporre – scrissero gli insegnanti ortodossi – che i greci dovessero capire le parole greche meglio degli stranieri. Di conseguenza, se non possiamo verificare che uno di quei santi che parlavano la lingua greca, ha spiegato le parole dell’Apostolo, scritte in greco, in un senso diverso da quello attribuito dal benedetto Giovanni (Crisostomo), allora dobbiamo sicuramente aderire con la maggioranza delle autorità patristiche della Chiesa”. Le espressioni sothenai, sozesthai soteria, usate dagli scrittori pagani, significano costantemente, esistenza (diamenein, einai). Le parole dell’Apostolo nel loro vero significato esprimono questo. Il fuoco naturalmente distrugge, mentre quelli che sono condannati al fuoco eterno non sono distrutti. L’Apostolo dice che i peccatori si preservano nel fuoco nel quale continuano ad esistere sebbene, allo stesso tempo, vengano bruciati. Verificando la verità di tale chiarimento dalle parole dall’Apostolo (vers. 11, 15), gli ortodossi esposero i seguenti commenti: “L’Apostolo divide tutto ciò che è costruito sul fondamento proposto (Gesù Cristo) in due parti, ma non suggerisce mai una terza parte come fosse una fase intermedia. Per oro argento e pietre, egli intende le virtù; per fieno, legno, paglia, tutto ciò che è contrario alla virtù come, ad esempio, le azioni cattive. La vostra dottrina – continuarono ad affermare ai latini – avrebbe forse qualche fondamento se (l’Apostolo) dividesse le azioni cattive in due generi: un genere purificabile da Dio e l’altro degno della punizione eterna. Ma egli non ha fatto tale divisione. Egli elencando semplicemente tali opere (le virtù) destina l’uomo a una grande eterna gioia mentre con le altre opere (i peccati) assegna una punizione eterna”. Dopodiché dice: “Il lavoro d’ogni uomo sarà manifestato” e mostra quando questo accadrà, puntualizzando che nell’ultimo giorno, Dio renderà a tutti secondo i loro meriti. “Il giorno – dice – sarà manifesto, perché sarà rivelato dal fuoco”. Evidentemente, questo è il giorno del secondo arrivo di Cristo, la prossima era, il cosiddetto giorno inteso con un senso ben preciso, giorno che si contrappone alla presente vita la quale, al suo confronto, è notte. Questo è il giorno nel quale Egli verrà nella gloria ed un fiume di fuoco lo precederà. (Dn. VII 10; Ps. 1. 3; XCVII. 3; 2 S. Pt III 12, 15). Tutto questo ci dimostra che le parole di s. Paolo in tal contesto parlano dell’ultimo giorno e del fuoco eterno preparato per i peccatori. “Questo fuoco – egli dice – prova il lavoro d’ogni uomo di qualsiasi tipo esso sia”, illuminando alcune opere e bruciandone altre ma non i loro responsabili. Quindi se l’atto cattivo viene distrutto dal fuoco, chi lo ha compiuto non viene pure lui distrutto, ma la sua esistenza continua nel fuoco subendolo eternamente. Qui l’Apostolo non divide i peccati in mortali e veniali, ma in atti genericamente buoni e cattivi. Il tempo di quest’evento è assegnato dall’Apostolo al giorno finale come ritiene pure san Pietro. Così, nuovamente, attribuendo al fuoco il potere di distruggere tutte le azioni cattive, ma non chi le fa è evidente che san Paolo non parla del fuoco del purgatorio, che, come pare dalla vostra opinione, non concerne tutte le azioni cattive, ma solo i piccoli peccati. Pure la frase: “Se il lavoro di qualche uomo sarà ha bruciato, [egli] soffrirà una perdita, (zemiothesetai, ossia “perderà”) significa che l’Apostolo parla degli eterni patimenti; di coloro che sono privati della luce divina: mentre ciò non può essere detto in chi viene purificato, come voi ammettete. Infatti costoro non solo non perdono niente ma acquisiscono pure moltissimo, essendo liberati dalla cattiveria e rivestiti di purezza e di candore”. I difensori della dottrina ortodossa risposero alle citazioni dei latini – Basilio il Grande (nella sua preghiera per la Pentecoste), Epifanio, Giovanni Damasceno e Dionigi l’Aeropagita – osservando che queste affermazioni non contribuiscono in nulla a sostenere la teoria della Chiesa romana. Essi non poterono trovare la testimonianza di Teodoreto adotta dai latini. “Rimane solo un Padre – continuarono gli ortodossi – il benedetto Gregorio di Nissa, il quale rispetto agli altri, è quello che apparentemente parla maggiormente a vostro vantaggio. Conservando tutto il dovuto rispetto per questo Padre, non possiamo non osservare, che pure lui era un uomo mortale; ed un uomo, a qualunque grado di santità possa pervenire, rimane sempre nella possibilità di errare, particolarmente su argomenti che, come in questo caso, non sono stati precedentemente esaminati o precisati in un concilio generale da tutti i Padri”. Gli insegnanti ortodossi, parlando di Gregorio, più di una volta caratterizzano le loro parole con l’espressione: “se tale era la sua idea”, e concludono la loro discussione su Gregorio con le seguenti parole: “Dobbiamo vedere la dottrina generale della Chiesa e prendere la Sacra Scrittura come una regola per noi stessi, senza porre attenzione a quanto ciascuno ha scritto a seconda della sua personale capacità (idia)”. Riguardo alle testimonianze dei Padri occidentali, gli insegnanti orientali dissero che costoro erano piuttosto ignoranti sul pensiero orientale. Cercarono, tuttavia, di scusarli perché non potevano avere una traduzione dal greco di ogni scritto considerate le circostanze nelle quali essi lavoravano. Hanno così scusato il malinteso sulle parole dell’Apostolo (I Cor III 11, 15) per la difficoltà di poter tracciare una conclusione generale.
Per quel che riguarda l’autorevolezza dell’opinione della Chiesa di Roma difesa dai latini, i greci la dimostrarono incoerente nel modo di affrontare quest’argomento. Alla fine, i latini opposero i loro cavilli alle conclusioni più valide sui principi della dottrina di Cristo, sui molti lavori dei Padri, sulla parabola di Lazzaro nella quale, menzionando il “seno di Abramo” come luogo di grande gioia e l’inferno come luogo di punizione, non si dice nulla riguardo a qualche luogo intermedio per delle punizioni temporali. La risposta greca è stata evidentemente esposta per mostrare ai latini, da un lato, la fallacia della loro dottrina recentemente inventata e, dall’altro, la costanza della fede della parte ortodossa dagli Apostoli ai santi Padri fino ad allora. Nel corso delle dispute la questione principale si suddivise in molte questioni astratte alle cui domande, era sempre più difficile trovare una soluzione. Ad esempio i latini domandarono dove e come gli angeli volano? In che consiste la sostanza del fuoco infernale? L’ultima domanda ha avuto la seguente risposta da Jagaris, l’ufficiale imperiale: “L’investigatore otterrà una soddiscacente risposta alla sua domanda, quando esperimenterà direttamente la natura di quel fuoco”[7]. Non essendo gradita l’esposizione sulla questione del purgatorio si cercò di aggirare l’ostacolo avanzando un’ altra proposta sullo stato di beatitudine del giusto. Tale condizione era stata accennata da Bessarione nel suo trattato sulla differenza delle dottrine tra le due Chiese riguardo alla condizione delle anime dei defunti. Così fu chiesto se i santi, dopo questa vita, raggiungono la pienezza della gioia oppure no. Davanti a questa domanda, i greci fornirono una risposta frutto d’una precedente riunione della loro parte con altri membri del concilio. In tale precedente riunione tutti i membri radunati nella cella patriarcale (il 15 luglio) lessero diverse testimonianze dei Padri. L’Imperatore raccolse i loro voti. Alle parole dell’Apostolo (Eb XI 39), alcuni diedero una risposta negativa, altri una risposta positiva. Il giorno seguente, dopo altre discussioni, tutti i vescovi greci convennero unanimemente al concilio, affermando che, sebbene le anime dei santi, in quanto tali, godono di una grande gioia, alla risurrezione generale nella quale si congiungeranno con i loro corpi, la gioia sarà più grande ancora; ed essi saranno illuminati come il sole[8]. Questa fu la loro ultima risposta alla dottrina latina sullo stato delle anime dopo la morte. Ma allora, che frutti portarono queste tediose discussioni? Avrebbero in qualche modo condotto alla soluzione di una tra le principali questioni riguardo all’unione delle Chiese? Tutt’ altro! I teologi latini non potevano né trovare le prove per le loro affermate opinioni né potevano darne altre. Naturalmente i greci non potevano accogliere una dottrina fondata su prove non buone, né potevano convincere i latini ad accogliere la dottrina ortodossa.
Per sfortuna dei greci, proprio la loro parte si divise e questa circostanza non poteva pronosticare nulla di buono. Bessarione era colui che generalmente interveniva. Egli non era molto serio nella difesa della causa ortodossa e se disputò con i latini, era solo per ostentare le sue capacità oratorie[9]. Incontrando un concorrete in Marco d’Efeso[10], divenne ancor più passivo per la causa ortodossa e cominciò a nutrire un sentimento d’avversione nei riguardi di Marco. Obbligandolo a rispondere ai latini insieme con lui, lo lasciò confutare le loro obiezioni da solo. Invano molte persone prudenti cercarono di riconciliare Bessarione e Marco già all’inizio dell’inimicizia tra i due ricorrendo, pure all’aiuto dell’autorità patriarcale, visto che dai miti rimproveri era prevedibile che si sarebbe potuto facilmente scivolare in un aperto litigio. [Il patriarca] Giuseppe non avrebbe voluto per nulla immischiarsi in quest’affare[11]. Allora l’astuto [protosincello patriarcale] Gregorio fece il massimo per acuire il contrasto tra Bessarione e Marco, cercando di offendere quest’ultimo con l’affermazione che Marco non era un degno vicario del Patriarca di Alessandria[12]. Apparentemente [Gregorio] stimava Marco; in Concilio si sedeva in un seggio inferiore al suo[13], votava dopo di lui, nonostante i maggiori diritti del trono patriarcale al quale apparteneva. Quando la sua opinione coincideva con quella di Marco non si riferiva mai apertamente a lui preferendo indirettamente dire: “Sono della stessa opinione del santo Metropolita di Efeso”[14]. Ma questa era solo ipocrisia. Alla presenza di Bessarione e dell’Imperatore, egli mise Marco in una posizione gerarchica più bassa dell’Arcivescovo di Nicea[15], attribuendogli il difetto di autocontraddirsi in ogni sua affermazione[16]. Così quando cominciarono le discussioni conciliari, sorse tra i greci una separazione tra i veri membri della Chiesa orientale e coloro che sacrificavano il vantaggio della Chiesa per i loro personali interessi e passioni. Quando le dispute finirono, erano già passati più di tre mesi dall’apertura del concilio. I greci rimanendo inattivi, cominciarono ad essere insofferenti[17], sentendosi depressi e tristi per aver abbandonato le loro case.
L’Imperatore, temendo che per la scontentezza venisse prematuramente abbandonato il concilio, ordinò al governatore della città di non permettere ai greci di uscire da essa né di rilasciare dei passaporti senza la sua firma e il suo permesso. Egli stesso, all’insaputa dei greci in Ferrara, era traslocato in un convento non lontano dalla città per adoperare il proprio tempo nella caccia come se fosse cosa spiacevole ricordarsi dell’impegno che lo aveva allontanato dall’Impero[18]. In anticipo sul tempo fissato per l’apertura delle sessioni solenni del concilio, i greci richiesero all’Imperatore di ritornare in città per dare alcune disposizioni al concilio stesso. L’Imperatore rispose che non avrebbe pensato all’apertura di un concilio ecumenico senza gli ambasciatori dei monarchi occidentali e una riunione di vescovi più numerosa di quella presente. Tuttavia i membri del concilio invece di aumentare, diminuirono. Molti furono vittima d’una spaventosa epidemia; altri, per paura del contagio, si rinchiusero nelle loro case, cosicché al principio deiia sessione solenne, invece di undici cardinali rimasero solo cinque e in luogo di centocinquanta vescovi solo cinquanta furono i vescovi presenti. In questo tempo i greci ricevettero una prova della protezione divina: nessuno di loro fu colpito dall’epidemia[19]. Con l’arrivo, il 18 agosto, del Metropolita russo Isidoro si aggiunse al concilio solo una persona. Egli ritornò in Russia dopo la conclusione del trattato tra l’Imperatore ed il concilio di Basilea (alla fine del 1436). Con lui ritornò Giona, vescovo di Riazan, inviato in Grecia per essere ordinato Metropolita. Arrivando a Mosca, Isidoro fu ricevuto con ogni onore dal granduca Vasili Vasilievitch il Grande. Subito dopo il suo arrivo, il granduca seppe che la Chiesa greca aveva sancito un’unione con la Chiesa di Roma, che era stato convocato un concilio con questo preciso fine dall’imperatore e dal papa e che era stata sancita un’unione solenne tra Oriente ed Occidente. A tal fine era stato ritenuto particolarmente necessario che un rappresentante della Chiesa russa prendesse parte all’assise. Il granduca rispose: “I nostri padri e i nostri avi non avrebbero neppure ascoltato una possibile unione tra le leggi greche e quelle romane; io stesso non la desidero”. Isidoro lo spinse ad acconsentire, supplicandolo d’aver fatto un giuramento al Patriarca all’inizio del concilio: “Non ti comandiamo di unirti al concilio celebrato nella terra latina – disse alla fine il granduca – ma di non ascoltarli e di non staccarti da noi. Ricorda la purezza della nostra fede e volgiti contro quanto non è a ciò attinente”. Isidoro prestò giuramento di rimanere nella vera ortodossia e, l’8 settembre 1437, lasciò Mosca con Abramo, vescovo di Suzdal, l’archimandrita Vassian, il prete Simeone ed altri membri del clero e del laicato per un totale di cento persone. Lasciando la Russia, Isidoro dimostrò molto presto una violenta inclinazione a parteggiare con i latini. Ricevuto in Livonia dal vescovo di Dorpat e dal clero ortodosso, salutò dapprima la croce latina e solo dopo baciò le sante icone. I compagni di Isidoro rimasero atterriti dall’orrore e, da quel momento, persero ogni fiducia in lui[20].


[1] [Il presente capitolo è una traduzione tratta da Ivan OstroumoffThe History of the Council of Florence, tradotto a sua volta dal russo da Basil Popoff (Holy Transfiguration Monastery, Boston 1971), pp. 47-60. Le note a piè di pagina sono state rinumerate e i termini citati in greco traslitterati. Tutto il resto è rimasto come nell’originale. Il libro citato è uno tra i più importanti in materia. In esso si possono chiaramente vedere le differenze tra i latini e la Chiesa ortodossa. L’autore lascia che il lettore giudichi da solo quale delle due parti abbia mantenuto la vera fede cristiana. N.d.t.]
[2] Syr. v. 7, 8. Synod. Flor. p. 30.
[3] Syr. v. 13. Synod. Flor. p. 30.
[4] I contenuti della risposta di Marco, non pubblicati in greco, vengono citati da Le Quien in uno dei suoi trattati, precedente alla sua redazione sui lavori di s. Giovanni Damasceno. Dissert. Damas. v. p. 65, et seq. Syropulus, riferendosi alle commoventi circostanze nelle quali avveniva questa disputa, riferisce ai suoi lettori le decisioni e i commenti del concilio sul purgatorio (Praktika hypomnemata peri tou pyrgatoriou, Syr. v. 5). Tuttavia questi scritti non sono pubblicati separatamente e, parimenti, non sono fondati nei manoscritti greci. La risposta dei Padri greci alla questione sul purgatorio, comunicata il 14 giugno 1438, (non a Basilea ma al concilio fiorentino) è menzionata nel libro di Martin KruzeTurcograecia, p. 186.
[5] Synod. Flor. pp. 33, 35.
[6] La risposta usualmente ritenuta dei greci è il lavoro intitolato, Peri tou katharteriou pyros hihlion hen, redatta assieme ai lavori di Nilo Cavasilas e del monaco Barlaam. In tale risposta viene omesso il nome dell’autore. (Nili Archiep. Thessalon. De primatu Papae, edit. Salmasii, Hanov. 1603). Pure il nome del redattore non viene menzionato. Qualche volta si pensa sia Nilo Cavasilas o il monaco Barlaam, sebbene il contenuto dei manoscritti non dia ragione per una tale attribuzione. (Ctrl. Fabric. Bihl. Graec. Ed. Harl. t. XI. p. 384 e 678.) È evidente che il lavoro:
  1. non poteva essere stato scritto nel nome di una sola persona, ma di molte persone che si erano assunte un così lungo travaglio;
  2. che è stato scritto a persone, le quali si erano occupate dell’arrivo dei greci al concilio;
  3. che è stato scritto proprio all’inizio dei dibattiti conciliari, prima di fissare altre questioni. Questa è la ragione per cui le persone che composero tale lavoro cercarono di dare una soluzione pacifica non solo su tale questione ma, possibilmente, su ogni altra, ouk epi tou prokeimenou nyni toutou zetematos, alla kai epi panton isos ton allon. Ekeinon men heineka melei theo kai melesei...;
  4. che fu scritto in risposta alla difesa (apologian) della dottrina romana sul purgatorio.
Tutte queste circostanze dirigono la nostra attenzione alle dispute sul purgatorio che presero luogo a Ferrara e non in altri luoghi da noi conosciuti. Il redattore della Storia del concilio fiorentino, Doroteo di Mitilene, sottolinea che i latini, nella loro seconda risposta si appoggiarono a molte testimonianze tratte dagli scritti dei santi, a molti esempi ed argomenti, usando le parole dell’Apostolo (“però si salverà, ma come attraverso il fuoco”. Synod. Flor. pp. 35, 36. Pure tutto questo fu spiegato nella risposta contro la quale i latini presentarono il lavoro da noi esaminato. Syropulus dice che fu Marco di Efeso a scrivere la risposta alla difesa latina (v. 15). Ma questa risposta, come la prima, non è stata pubblicata. Le Quien, esaminando entrambe le risposte nella sua dissertazione summenzionata, cita i principali pensieri di Marco contenuti nella seconda risposta. Identiche idee, nello stesso ordine, sono pure rinvenibili nel lavoro On Purgatorial Fire, come pure le parole citate da Le Quien dalla seconda risposta di Marco, ti gar koinon aphesei te kai katharsei dia pyros kai kolaseos. Dissert. Damasc. v. pp. 8, 9, 66, 67. Tutti questi argomenti ci permettono di concludere che il lavoro sul fuoco del purgatorio fu o interamente o principalmente composto da Marco di Efeso. Questo è quanto è stato esposto dai greci in risposta alla difesa latina sulla dottrina del purgatorio.
[7] Syr. v. 16, 18. Synod. Flor. p. 35-37.
[8] Synod. Flor. 37-39.
[9] È degno di avviso menzionare che quando i greci, vista l’opposizione ostinata dei latini alla verità, desiderarono terminare ogni discussione, solo Bessarione insistette per continuare. Perciò cambiò l’oggetto di discussione. “Possiamo dire ancora molte cose belle”, furono le sue parole (Polla kai kala)SYR. VII. 6.
[10] Marco, non Bessarione fu incaricato di scrivere una risposta sul purgatorio per i latini; ciononostante Bessarione diede pure una sua risposta.
[11] Syr. V. 14-17.
[12] Syr. IV. 29.
[13] Syr. IV. 32.
[14] Syr. VII. 10.
[15] Syr. V. 14.
[16] Syr. V. 15.
[17] Il primo giorno di paga dei greci fu il 2 aprile: 691 fiorini furono loro dati per l’acconto di un mese mentre la paga dovuta avrebbe dovuto essere di un mese e mezzo. SYR. IV. 28. Il secondo giorno di paga, il 12 maggio, essi ricevettero 689 fiorini (SYR. V. 9); il terzo giorno, il 30 giugno, 689 fiorini; il 21 ottobre, 1218 fiorini per due mesi. Il quinto e ultimo giorno di paga fu a Ferrara, il 12 gennaio 1439, quando furono pagati 2412 fiorini per quattro mesi (SYR. VII, 14). Passarono così tre mesi e venti giorni tra il terzo e il quarto giorno di paga e pure molto tempo tra il quarto e il quinto giorno.
[18] Syr. VI. 1, 2.
[19] Syr. VI. 3.
[20] KaramzinHistory of the Russian Empire, Ernerling’s ed. T.v., pp. 161-165.