La preghiera di Gesù


LA PREGHIERA DI GESU

NELLA TRADIZIONE DELLA CHIESA
     


La preghiera di Gesù si dice in questo modo: 
Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio  abbi pietà di me, peccatoreIn origine, la si diceva senza la parola peccatorequesta è stata aggiunta più tardi alle altre parole della preghiera. Tale parola esprime la coscienza e la confessione della caduta, che bene si applica a noi, come fa notare Nil Sorskij, e piace a Dio, che ci ha comandato di rivolgergli preghiere con la coscienza e la confessione del nostro stato di peccato
La formula
Tenendo conto della debolezza dei principianti, i Padri li autorizzano a dividere la preghiera in due parti e dire talora: Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me, peccatoree talaltra: Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatoreE’ solo un permesso, una concessione, e non è per nulla un ordine o una prescrizione che si deve assolutamente osservare. E' molto meglio infatti utilizzare costantemente la stessa formula per intero, senza preoccuparsi di cambiarla, rischiando di distrarsi. Anche chi, a motivo della propria debolezza, prova il bisogno di alternare le formule non deve permettersi di farlo troppo spesso. Si può, per esempio, utilizzare una metà della preghiera fino al pasto di mezzogiorno e l'altra metà nel seguito della giornata. Gregorio Sinaita sconsiglia i cambiamenti frequenti: "le piante continuamente trapiantate non mettono radici".

Istituita da Cristo
Pregare facendo uso del Nome di Gesù è un'istituzione divina: è stata introdotta non tramite un profeta o un apostolo o un angelo, bensì dal Figlio stesso di Dio. Dopo l'ultima cena, il Signore Gesù Cristo diede ai suoi discepoli dei comandamenti e dei precetti sublimi e definitivi; fra questi, la preghiera nel suo Nome. Egli ha presentato questo tipo di  preghiera come un dono nuovo e straordinario, d'inestimabile valore. Gli apostoli conoscevano già in parte la potenza del Nome di Gesù: per suo mezzo guarivano le malattie incurabili, sottomettevano i demoni, li dominavano, li legavano e li cacciavano. E' questo Nome potente e meraviglioso che il Signore comanda di utilizzare nelle preghiere, promettendo che agirà con particolare efficacia. "Qualunque cosa chiederete al Padre nel mio Nome", dice ai suoi apostoli, "la farò, perché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel mio Nome, io la farò" (Gv 14.13-14). "In verità, in verità vi dico: se chiederete qualche cosa al Padre nel mio Nome, egli ve la darà. Finora non avete chiesto nulla nel mio Nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena" (Gv 16.23-24).

Il Nome divino
Che dono meraviglioso! E’ il pegno dei beni eterni e infiniti. Esso proviene dalle labbra del Dio che, pur trascendendo ogni imitazione, ha rivestito un'umanità limitata e ha preso un nome umano: SalvatoreQuanto alla sua forma esterna, questo Nome è limitato; ma, poiché rappresenta una realtà illimitata - Dio -  riceve da lui un valore illimitato e divino, le proprietà e la potenza di Dio stesso. "Generoso donatore di un dono prezioso e incorruttibile! Come possiamo noi, miserabili peccatori quali siamo, ricevere questo dono? Non le nostre mani, né la nostra mente e neppure il nostro cuore ne sono capaci. Insegnaci tu stesso a conoscere, nella misura delle nostre possibilità, la grandezza di questo dono, il suo significato, e come bisogna riceverlo e farne uso, affinché non ci avviciniamo a esso in modo indegno e subiamo un castigo a motivo della nostra folle temerarietà, ma, grazie alla comprensione e all'uso corretto che ne facciamo, possiamo ricevere da te gli altri doni che hai promesso e che tu solo conosci.

La pratica degli apostoli
Negli Evangeli, negli Atti e nelle Lettere noi vediamo la fiducia senza limiti che gli apostoli avevano nel Nome del Signore Gesù e la loro infinita venerazione nei suoi confronti. E' per suo mezzo che essi compivano i segni più straordinari. Certamente non troviamo nessun esempio che ci dica in che modo essi pregassero facendo uso del Nome del Signore, ma è certo che lo facevano. E come avrebbero potuto agire diversamente, dal momento che tale preghiera era stata loro consegnata e comandata dal Signore stesso, dal momento che questo comando era stato loro dato e confermato a due riprese? Se la Scrittura tace a questo proposito, è unicamente perché questa preghiera era di uso comune: non v'era dunque nessuna necessità di menzionarla espressamente, dato che era ben nota e che la sua pratica era generale.

Un'antica regola
Che la preghiera di Gesù sia stata largamente conosciuta e praticata risulta chiaramente da una disposizione della chiesa che raccomanda agli analfabeti di sostituire tutte le preghiere scritte con la preghiera di Gesù. L'antichità di tale disposizione non lascia spazio a dubbi. In seguito, essa fu completata per tener conto della comparsa all'interno della chiesa di nuove preghiere scritte.Basilio il Grande ha steso quella regola di preghiera per i suoi fedeli; così, certuni gliene attribuiscono la paternità. Senz'altro, però, essa non è stata né creata né istituita da lui: egli si è limitato a mettere per iscritto la tradizione orale, esattamente come ha fatto per la stesura delle preghiere della liturgia. Quelle preghiere, che esistevano a Cesarea già fin dai tempi apostolici, non erano scritte, ma si trasmettevano in forma orale, allo scopo di proteggere quel grande atto liturgico dai sacrilegi dei pagani.

I primi monaci
La regola di preghiera del monaco consiste essenzialmente nell'assiduità alla preghiera di Gesù. E' sotto questa forma che tale regola viene data, in maniera generale, a tutti i monaci; è sotto questa forma che è stata trasmessa da un angelo a Pacomio il Grande, vissuto nel IV secolo, per i suoi monaci cenobiti. In questa regola si parla della preghiera di Gesù allo stesso modo in cui si parla della preghiera domenicale, del salmo 50 e del simbolo della fede, cioè come di cose universalmente conosciute e accettate. Quando Antonio il Grande, che visse fra il III e il IV secolo, esorta i discepoli ad esercitarsi con il più grande zelo nella preghiera di Gesù, ne parla come di qualcosa che non ha bisogno del minimo chiarimento. Le spiegazioni relative a questa preghiera apparvero più tardi, a mano a mano che se ne perdeva la conoscenza viva. Così, un insegnamento dettagliato sulla preghiera di Gesù fu dato dai Padri del XIV e XV secolo, allorché la sua pratica prese a scomparire anche fra i monaci.

Testimonianze indirette
Nei documenti dei primi secoli del cristianesimo pervenuti fino a noi, la preghiera nel Nome di Gesù non è trattata a parte, ma solo in connessione con altri temi.
Nella Vita di Ignazio Teoforo, vescovo di Antiochia, che ricevette la corona del martirio a Roma sotto l'imperatore Traiano, leggiamo quanto segue: “Mentre lo si conduceva per essere consegnato alle bestie feroci, egli aveva incessantemente il Nome di Gesù Cristo sulle labbra; allora i pagani gli chiesero per quale motivo pronunciasse continuamente quel Nome. Il santo rispose che aveva il Nome di Gesù Cristo impresso nel cuore e che non faceva altro che confessare con la bocca colui che sempre portava nel cuore. Più tardi, dopo che fu divorato dalle belve, avvenne per volontà di Dio che il suo cuore restasse intatto fra le ossa. Gli infedeli che lo trovarono si ricordarono allora della  sua risposta; tagliarono quindi il cuore in due parti per verificare l’esattezza delle parole del santo. All'interno, sulle due metà, trovarono un'iscrizione a caratteri d'oro: Gesù CristoCosì il santo martire Ignazio fu davvero, sia nel nome che nella vita, un 'Teoforo' (nome che in greco significa 'Portatore di Dio'), perché portava sempre nel cuore il Cristo-Dio, impresso dalla meditazione continua del suo spirito, come se fosse stato inciso dalla penna d'uno scriba”.  Ignazio fu discepolo del santo apostolo ed evangelista Giovanni Teologo ed ebbe nella sua infanzia il privilegio di vedere il Signore Gesù Cristo. E’ lui il bambino di cui si parla nell'evangelo: il Signore lo pose in mezzo agli apostoli che avevano discusso per sapere chi fosse il più grande fra loro; dopo averlo abbracciato, Gesù disse loro: "In verità, vi dico:se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli" (Mt l8.3-4)

La chiesa primitiva
Non v'è dubbio che l'evangelista Giovanni insegnò la preghiera di Gesù a Ignazio e che questi, in quel periodo fiorente del cristianesimo, la praticava al pari di tutti gli altri cristiani. In quel tempo tutti i cristiani imparavano a praticare la preghiera di Gesù: anzitutto per la grande importanza di questa preghiera, quindi per la rarità e il costo elevato dei libri sacri ricopiati a mano e per il numero ridotto di quanti sapevano leggere e scrivere (gran parte degli apostoli erano analfabeti), infine perché questa preghiera è di facile uso e ha una potenza e degli effetti assolutamente straordinari.

Il pastore di Erma
"Il Nome del Figlio di Dio", disse un angelo a Erma, discepolo immediato degli apostoli, «è grande, infinito e regge tutto il mondo. Se ogni creatura è sorretta dal Figlio di Dio, che ti pare di quelli che sono chiamati da lui e portano il suo Nome e camminano nella via dei suoi comandamenti? Vedi, dunque, chi sostiene? Quelli che con tutto il cuore portano il suo Nome. Egli è divenuto il loro fondamento e li regge con amore, poiché non si vergognano di portare il suo Nome

Callistrato
Nella storia della chiesa troviamo questo racconto: "Un soldato di nome Neocoro, originario di Cartagine, faceva parte della guarnigione romana che presidiava Gerusalemme al tempo in cui il Signore nostro Gesù Cristo patì volontariamente le sofferenze e la morte per la redenzione del genere umano. Alla vista dei miracoli che si compirono al momento della morte e della risurrezione del Signore, Neocoro credette nel Signore e fu battezzato dagli apostoli. Finito il periodo di servizio, Neocoro ritornò a Cartagine e comunicò il tesoro della fede a tutta la sua famiglia. Fra coloro che accolsero il cristianesimo si trovava un nipote di Neocoro, Callistrato. Quando raggiunse l'età richiesta, Callistrato entrò a far parte dell'esercito. La guarnigione nella quale fu incorporato era composta di idolatri che si misero a sorvegliare Callistrato, perché avevano notato che non venerava gli idoli ma che, durante le notti, faceva lunghe preghiere in un luogo solitario. Un giorno che tendevano l'orecchio per cercar di afferrare quel che diceva,lo udirono ripetere incessantemente il Nome del Signore Gesù Cristo e lo denunciarono al comandante. Callistrato, che aveva confessato Gesù nella solitudine e nell'oscurità della notte, lo confessò anche in pieno giorno, pubblicamente, e suggellò laconfessione versando il proprio sangue

Declino progressivo
Uno scrittore del V secolo, Esichio di Gerusalemme, si lamenta già che la pratica di questa preghiera è andata fortemente in declino fra i monaci. Col tempo, tale declino si accentuerà ulteriormente; così, i santi Padri con i loro scritti si sforzarono di incoraggiare questa pratica. L'ultimo in ordine di tempo a scrivere su questa preghiera fu il beato starec Serafim di Sarov. Lo starec non redasse lui stesso le Istruzioniche apparvero sotto il suo nome, ma esse furono messe per iscritto, a partire dal suo insegnamento orale, da uno dei monaci che stavano sotto la sua direzione; esse portano chiaramente il segno di un'ispirazione divina.  Ai nostri giorni, la pratica della preghiera di Gesù è quasi abbandonata da coloro che fanno vita monastica. Esichio cita la negligenza come causa di tale abbandono; bisogna proprio riconoscere che quest'accusa è giustificata.

Il potere del Nome
La forza spirituale della preghiera di Gesù risiede nel Nome del Dio-Uomo, il nostro Signore Gesù Cristo. Benché siano molti i passi della sacra Scrittura che proclamano la grandezza del Nome divino, tuttavia il suo significato fu spiegato con grande chiarezza dall'apostolo Pietro dinanzi al sinedrio che lo interrogava per sapere "con quale potere o in nome di chi" egli avesse procurato la guarigione a un uomo storpio fin  a a nascita. "Allora Pietro, pieno di Spirito santo, disse loro: 'Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo e in qual modo egli abbia ottenuto la salute, la cosa sia nota a voi tutti e a tutto il popolo d'Israele: nel Nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi sano e salvo. Questo Gesù è la pietra che, scartata da voi, costruttori, è diventata testata d'angolo. In nessun altro c'è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati"' (At 4.7-12) Una tale testimonianza viene dallo Spirito santo: le labbra, la lingua, la voce dell'apostolo non erano che strumenti dello Spirito.
Un altro strumento dello Spirito santo, l'apostolo dei gentili, fa una dichiarazione simile. Egli dice: "Infatti, chiunque invocherà il Nome del Signore sarà salvato" (Rm 10.13). "Gesù Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nomeperché nel Nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra" (Fil 2.8-10).
(estratto dal libro di I. Brjancaninov: Preghiera e lotta spirituale, ed Gribaudi).  





ESICASMO  & 
PREGHIERA DI GESU'

Introduzione
La comunità apostolica, riprendendo una tradizione antico-testamentaria, ha posto, fin dall'inizio, una attenzione tutta particolare per il Nome che ha assunto il Figlio di Dio al momento della sua incarnazione: Gesù, che significa Jhwh è salvezza. Inoltre tre testi mettono in evidenza la venerazione della Chiesa primitiva verso il nome di Gesù: Fil 2,9-10; At 4,10-12; Gv 16,23-24.
Tuttavia la Preghiera del cuore, radicata nel Nuovo Testamento, viene assunta da una «corrente» propria della spiritualità orientale antica che è stata chiamata esicasmoIl nome proviene dal greco hesychìa che significa: calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione.L'esicasmo può essere definito come un sistema spirituale di orientamento essenzialmente contemplativo che ricerca la perfezione (deificazione) dell'uomo nella unione con Dio tramite la preghiera incessante.
Tuttavia ciò che caratterizza tale movimento è sicuramente l'affermazione della eccellenza o della necessità dejla stessa hesychia, della quiete, per raggiungere la pace con Dio. In un documento del monastero di Iviron del monte Athos, si legge questa definizione: «L'esicasta è colui che solo parla a Dio solo e lo prega senza posa».
Gli esicasti, inserendosi nella tradizione biblica, esprimeranno l'esperienza della preghiera. contemplativa attraverso l'invocazione e l'attenzione del cuore al Nome di Gesù, per camminare alla sua presenza, essere liberati da ogni peccato e rimanere nel dolce riposo di Dio in ascolto della sua parola silenziosa.
La storia dell'esicasmo inizia con i monaci del deserto d'Egitto e di Gaza. «A noi, piccoli e deboli, non ci resta altro da fare che rifugiarci nel Nome di Gesù», dice uno di loro. Si afferma poi al monastero del Sinai, con san Giovan'm Climaco. Un esponente di spicco è sicuramente Simeone il Nuovo Teologo. Rinascerà al Monte Athos nel sec. XIV.


La vocazione all'esichia

Il termine greco hesychìa viene tradotto in latino con quies, pax, tranquillitas, silentium.
In genere esichia significa quiete, ma può anche voler esprimere la pace profonda del cuore. L'etimologia è incerta: forse il verbo da cui deriva, hèsthai, significa essere assiso, stare seduto.
Nella letteratura monastica esichia rivela almeno due significati. Prima di tutto tranquillità, quiete e pace come stato d'animo, e condizione stabile del cuore necessaria per la contemplazione. Significa ancora distacco dal mondo nella doppia accezione di solitudine e silenzio.
L'esichia espressa nella pace, quiete, solitudine e silenzio interiore, che viene raggiunta attraverso la solitudine e il silenzio esteriore, si presenta tuttavia come un mezzo eccellente per raggiungere il fine dell'unione con Dio nella contemplazione, attraverso la preghiera o l'orazione ininterrotta. In quanto mezzo e non fine l'esichia va distinta sia dalla apàtheià degli Stoici, intesa come assenza e liberazione dalle quattro passioni fondamentali, la tristezza, il timore, il desiderio e il piacere; sia dall'ataraxia degli Epicurei,che consiste nella libertà dell'anima dalle preoccupazioni della vita.
Questi movimenti filosofici sottolineano e ricercano la pace e la quiéte dell'animo, solo come fine ultimo e non come mezzo per una pienezza di vita che solo Dio può concedere. Nella letteratura monastica al contrario e in particolare presso i Padri del deserto, l'esichia mantiene sernpre una coloritura di mezzo e non di fine. Questa è un mezzo éccellente, un cammino di amore autentico, vissutp nel silenzio e nella solitudine al fine di raggiungere la preghiera vera e l'autentica contemplazione. L'esichia in definitiva è l'atteggiamento di chi nel proprio cuore si pone alla presenza di Dio.
Per cogliere i vari aspetti dell'esichia che il monaco è chiamato ad esprimere possiamo riferirci alla vita di padre Arsenio, il padre degli anacoreti. Ecco come viene raccontata la sua vocazione all'esichia:
«Abbà Arsenio, quando ancora abitava nel palazzo imperiale, pregò Dio con queste parole: "Signore mostrami la strada che conduce alla salvezza". E una voce si rivolse a lui e gli disse: "Arsenio fuggi gli uomini e sarai salvato".
Lo stesso, divenuto anacoreta, nella sua condizione di eremita, di nuovo rivolse a Dio la stessa preghiera, e intese una voce che gli disse: "Arsenio fuggi (il mondo), resta in silenzio e riposa nella pace (esichia). È da queste radici che nasce la possibilità di non peccare"»(Arsenio 1.2).
Quest'ultima frase è all'inizio della vocazione degli esicasti: «Fuge, Tace, QuiesceFuggi, Taci, Riposa». La fuga dal mondo, il silenzio e la pace interiore sono i tre atteggiamenti che danno forma allo stato di vita del monaco, in particolare dell' anacoreta.


Fuge: esichia come solitudine

Il monaco autentico è chiamato a vivere prima di tutto la solitudine. I Padri del deserto, sottolineano con grande forza la fuga dagli uomini, la necessità cioè di ridurre al minimo il contatto con essi. Si racconta in proposito: «Il beato arcivescovo Teofilo, si recò una volta dal padre Arsenio in compagnia di un magistrato. Chiese all'anziano di udire da lui una parola. Dopo un attimo di silenzio, egli rispose loro: "E se ve la dico, la osserverete?". Promisero di farlo. Disse loro l'anziano: "Dovunque sappiate che ci sia Arsenio, non avvicinatevi"»(Àrsenio 7).
«Il padre Marco disse al padre Arsenio: "Perché ci sfuggi?". L'anziano gli dice: "Dio sa che vi amo. Ma non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini. Le schiere celesti che sono migliaia hanno un'unica volontà, mentre gli uomini ne hanno tante. Perciò non posso lasciare Dio per venire dagli uomini"» (Arsenio 13).

Alcuni contatti discreti con il mondo possono  essere anche vantaggiosi. Tuttavia solo per quei monaci che hanno acquisito una grande maturità spirituale e ai quali è comandato espressamente da Dio. Ma per lo più il monaco è invitato a garantirsi una zona di calma, di silenzio, di solitudine per ricevere la formazione da parte di Dio e abituarsi alla sua silenziosa presenza.
L'esichia come solitudine non vuol dire solo fuga dal mondo, ma indica pure una certa stabilità in un determinato luogo solitario. Questa esigenza è espressa con un famosa formula che poi è divenuta tradizionale: «Rimani nella tua cella, resta nel tuo eremo, ed essa ti insegnerà ogni cosa» (Mosè 6). «Insegnerà ogni cosa» è la stessa frase che troviamo in bocca a Gesù quando preannunzia la venuta dello Spirito (Gv 14,26). Rimanere nella solitudine della cella è allora apertura allo Spirito, al suo fuoco e alla sua luce. L'abbà Macario l'Egiziano lega insieme la fuga dagli uoniini e il restare in cella: «Il padre Isaia chiese al padre Macario: "Dinnni una parola". E l'anziano gli dice: 'Fuggi gli uomini! ,. E il padre Isaia a lui: "Che cosa,significa fuggire gli uomini?". L'anziano gli disse: "Significa rimanere nella tua celia e piangere i tuoi peccati" » (Macario E. 27).
E rivolgendosi all'abbà Aio gli dirà: «Fuggi gli uomini, rimani nella tua cella a piangere i tuoi peccati, e non amare la conversazione con gli uomini. E ti salverai» (Macario E. 41).
Infatti la celia è l'ambiente per l'esichia, dirà lo stesso Antonio il grande: «Come i pesci muoiono se restano sulla terra secca, così i monaci che si attardano fuori della cella o si trattengono con la gente, perdono la forza necessaria all'esichia. Come dunque il pesce al mare così noi dobbiamo correre alla cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire il di dentro» (Antonio 10).

La solitudine può esprimersi pure in un atteggiamento di continuo pellegrinaggio da un luogo ad un altro. Ogni luogo infatti deve essere estraneo al monaco. Una tale estraneità - xenitèia - indica una sorta di esilio volontario lontano dalle cose mondane. Afferma san Nilo: «Il primo dei grandi combattimenti consiste nella xenitèia, cioè nell'emigrare solo spogliandosi come un atleta, ,,della propia patria, della propria razza, dei propri beni». Il passare da un luogo ad un altro è imitare il cammino di Gesù, come dimostra la storiella seguente:
«Del padre Agatone raccontavano che impiegò molto tempo assieme ai suoi discepoli per costruire una cella. Quando l'ebbero finita, cominciarono ad abitarvi, ma già dalla prima settimana vide qualcosa che gli pareva non giovasse e disse ai suoi discepoli: "Alzatevi andiamo via di qui" (Gv 1,3l). Ne furono molto turbati e dissero: "Se proprio avevi l'intenzione di andartène perché abbiamo tanto faticato per costruire la cella? La gente si scandalizzerà di nuovo e dirà: Ecco, questi instabili, che se ne vanno di nuovo". Vedendoli così avviliti, egli disse loro: "Se anche alcuni si scandalizzeranno, altri, a loro volta, saranno edificati e diranno: Beati costoro che per amore di Dio se ne sono andati disprezzando tutto. Comunque chi vuole venire venga. Io adesso vado. Allora si  gettarono a terra, pregando che permettesse loro di partire con lui» (Agatone 6; cf. anche Amoe 5).

Questi ultimi apoftegmi ci permettono di sottolineare l'aspetto itinerante della esichia. Certamente la cella è importante; ma non si può rimanere in essa con lo spirito del proprietario. Il monaco sa di essere straniero su questa terra e così abbahdona tutto ciò che può distoglierlo dal servizio di Dio, vivendo nel nascondimento e nell'attesa, sperando ardentemente nel ritorno del Signore glorioso. La solitudine esteriore è certamente importante, ma più necessaria è la solitudine del cuore. Qui si gioca l'autentica esichia, ovvero l'eremitismo o l'anacoresi interiore, il monachesimo del
del cuore, il solo che può condurre alla Preghiera di Gesù.

Tace: esichia come silenzio

Nella solitudine il monaco è chiamato a vivere il silenzio. La voce che Arsenio aveva udita si era infatti espressa nei termini che sappiamo:fuge, tacequiesce.
Il silenzio che esprimono i Padri del deserto, come giustamente è stato detto, «è un silenzio dai mille nomi e dai mille volti dove ogni cosa è al suo posto, è un silenzio prezioso per l'anima, un silenzio che sta dalla parte della trascendenza. Dai vari apoftegmi emerge che il silenzio dei Padri del deserto è il silenzio dell'umiltà, del tacere di se stessi, è il silenzio che toglie le parole all'egoismo, alla superbia, all'amor proprio, è il silenzio di chi si fa pellegrino e straniero, ma è anche il silenzio dell'amore, il silenzio di chi non giudica il prossimo, di chi non parla o sparla degli altri, infine è il silenzio della fede, di chi si fida del Totalmente Altro, di chi si è messo completamente nelle sue mani».
Consideriamo alcuni particolari di questo grande silenzio.
La preghiera perpetua è il problema pratico fondamentale che viene dibattuto molto nei primi secoli cristiani. I monaci avevano il dovere di realizzare questo comando della Scrittura, più di tutti gli altri cristiani. Il loro amore per il silenzio è senz'altro la forma, il clima, la dialettica stessa della preghiera ininterrotta
Il silenzio è come una cella e una sorta di eremo portatile da cui l'uomo di preghiera non uscirà mai anche quando per motivi di carità, dovrà andarsene dalla sua cella visibile. Afferma il grande Poemen «Se tu sarai nel silenzio  tu otterrai il riposo in qualsiasi luogo abiterai» (Poemen 84).
Custodire il silenzio, quando si presenta l'occasione di parlare, è la vera fuga dagli uomini: «Dominare la propria lingua ecco la vera estraneità - xenitèia -», afferma abbà Titoes;(veD 84).

«Il padre Giovanni era fervente nello Spirito. Venne un tale a visitarlo e lodò il suo lavoro: stava lavorando alla corda, e rimase in silenzio. Tentò una seconda volta di farlo parlare, ma egli continuava a tacere. La terza volta disse al visitatore: "Da quando sei venuto qui, hai allontanato da me Dio"» (Giovanni Nano 32).  
«A Scete il grande abbà Macario, quando si scioglieva l'assemblea, diceva: "Fuggite, fratelli". Uno degli anziani gli chiese: "Dove possiamo fuggire di più che in questo deserto?" Egli poneva il dito sulla bocca dicendo: "Questo fuggite!" e entrato nella sua cella, chiudeva la porta e si sedeva (si poneva in esichia)» (Macario E. 16).
  Il silenzio a cui invitano i Padri del deserto è  anche testimonianza. Secondo la loro esperienza è necessario parlare con le opere e non con la lingua. E il proprio cammino di fede che opera, le parole sono spesso inutili.

«Un fratello chiese al padre Sisoes: "Dimmi una parola". Gli disse: "Perché mi costringi a parlare inutilmente? Ecco, fa' ciò che vedi"»(Sisoes 45).
«Un fratello chiese al padre Poemen: "Dei fratelli vivono con me; vuoi che dia loro ordini?". "No - gli dice l'anziano - fa' il tuo lavoro tu, prima di tutto; e se vogliono vivere penseranno a se stessi". Il fratello gli dice: "Ma sono proprio loro, padre, a volere che io dia loro ordini". Dice a lui l'anziano: "No! Diventa per loro un modello, non un legislatore"» (Poemen 174).
L'abate Isaia disse ancora: «Non deve essere la tua lingua a parlare, ma le tue opere, e le tue parole siano più umili delle tue opere. Non pensare senza intelligenza, non insegnare
senza umiltà, affinché la terra possa ricevere il tuo seme».

I frutti del silenzio secondo i Padri del deserto sono molteplici. Il silenzio dona la quiete (Poemen 84); genera la castità (Detti V,25); è di aiuto contro gli empi (Detti XI, 7); conserva l'animo nella pace (Matoes 11); il silenzio è umiltà (Detti XV,76); il silenzio aiuta a non giudicare il prossimo, a non condannare nessuno, è rimedio contro la maldicenza; è scuola di tolleranza e benevolenza verso tutti (Ammone8).
Tuttavia un tale silenzio richiede molto coraggio. Afferma Poemen: «La prima volta fuggi, la seconda fuggi, la terza diventa una spada» (Poemen 140).


Quiesce: rimani nella pace interiore

Solitudine e silenzio praticati concretamente, rappresentano dunque per i Padri del deserto, il momento fondamentale dell'esichia del corpo, dell'esichia esteriore. Una quiete che seppure esterna è fondamentale. Infatti, come afferma Macario: «Nessuno può avere l'esichia dell'anima, se non si è assicurato dapprima quella del corpo».
Certamente però è 1' esichia interiore il cardine essenziale della spiritualità monastica orientale. Dalla solitudine e dall'assenza di parole il monaco è chiamato a passare al silenzio profondo attivo e creativo. E questo è tutt'altro che quietismo. Al contrario è «ricerca della sola quiete possibile, che è la pace di Cristo, la pace esultante di Dio nel fondo del cuore».
Il monaco si consacra per vocazione a perseguire unicamente l'unione con Dio, attraverso la preghiera, che a sua volta presuppone il totale distacco, la perfetta purificazione, la rinuncia a tutto ciò che potrebbe rallentare il suo cammino spirituale.
I Padri del deserto «hanno spesso ricordato che Gesù, anche dopo il primo ritiro nel deserto, ha spesse volte cercato la solitudine. La solitudine pone dunque il monaco al centro stesso del mistero della redenzione, in una configurazione al Cristo che tocca l'apice più doloroso, ma anche il più fecondo della sua opera di salvezza. In, questo modo il legame tra solitudine e preghiera prolungata, estasi e sofferenza viene solidamente affermato»  
La ricerca cristiana della solitudine, del silenzio e della pace interiore potrebbe anche apparire una sofisticata spinta egoistica. Ma non è così. «Consacrare interamente la propria vita terrena perché Dio sia tutto in tutte le cose è precisamente l'opposto dell'egoismo. E partecipare nel modo più generoso possibile, dopo il martirio, alla grande opera di Dio-Carità» .

(tratto da: M. BRUNINI: La preghiera del cuore nella spiritualità orientale, ed. Messaggero - Padova,  testo di riferimento in ambito cattolico per quanti si accostano per la prima volta allo studio dell'esicasmo e della preghiera del cuore).   


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