Scopo della creazione
Il Cristiano è un uomo che attende. Il Signore ci dice nel Vangelo: “Tenete sempre la cintura ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quei servi che attendono il padrone, che ritorna dalle nozze, per aprirgli al momento che verrà e busserà” (Lc 12, 35-36). Pochi testi ci rivelano tanto perfettamente quali debbano essere il senso e l’orientamento profondo della vita cristiana.
Scopo della creazione è la deificazione dell’uomo e dell’universo. Tutta l’economia della salvezza, l’opera redentrice di Cristo, l’azione santificante dello Spirito, hanno come scopo ricondurre l’umanità decaduta al fine per cui è stata creata, verso la pienezza della deificazione. Col ritorno di Cristo, che aspettiamo, si realizzerà il completamento supremo di questo disegno di Dio, questa economia della salvezza raggiungerà la sua definitiva realizzazione.
Se vogliamo ritrovare un cristianesimo vivente, che sia per noi fonte perpetua di gioia e di slancio spirituale, dobbiamo ricollocare al centro della nostra vita cristiana il desiderio impaziente e la certezza del ritorno glorioso del Signore, quel desiderio e quella certezza che animavano le prime generazioni cristiane.
Lo Spirito e la Sposa dicano: “Vieni!”. Colui che ascolta dica:“Vieni!”. Colui che ha sete venga e colui che lo desideri prenda l’acqua della vita, gratuitamente(Ap 22, 17).
L’essenza del messaggio cristiano, la “buona novella” della salvezza, è l’annuncio della resurrezione, dell’irruzione della vita nuova e immortale nel nostro mondo destinato alla sofferenza e alla morte, per il peccato dell’uomo. Questa irruzione della vita vera si è realizzata, fondamentalmente, nella resurrezione del Cristo, nel suo passaggio pasquale dalla morte alla vita. La morte è stata già vinta, la vita ha già trionfato. Ma occorre che ciascuno di noi, nel corso della propria vita, e la Chiesa nel corso della sua storia, faccia proprio questo passaggio, che lo riviva con Cristo – o meglio che Cristo lo riviva in lui – apportando il consenso della propria libertà all’opera della grazia divina. La Parusia di Cristo, la sua venuta gloriosa alla fine dei tempi, manifesterà tutto ciò che era contenuto virtualmente nella resurrezione di Cristo nel giorno di Pasqua, facendo partecipare tutto il suo Corpo, che è la Chiesa, al suo trionfo definitivo sul peccato, sulla sofferenza e sulla morte. Questa è la speranza della Chiesa e la sua certezza fondamentale.
L’attesa dei defunti
Su questo punto, il pensiero dei Padri della Chiesa era diverso da quello che, a partire dal Medioevo, è divenuto posizione comune nel cristianesimo occidentale.
In questa epoca, infatti, l’accento si sposta sulla fine ultima dell’individuo; si considera che la sorte eterna di ciascuno viene fissata definitivamente al momento della morte: i santi vanno direttamente in cielo, i peccatori non pentiti vanno all’inferno, e quelli che ancor hanno qualche pena da espiare vanno al purgatorio per un tempo più o meno lungo, ma la loro salvezza finale è assicurata. La resurrezione finale apporterà solo un completamento accidentale alla beatitudine già plenaria degli eletti, o al castigo dei dannati. Il giudizio finale manifesterà soltanto la sentenza già definitiva data nel “giudizio particolare”, al momento della morte.
Da allora, l’importanza data alla Parusia come fine della storia, la tensione escatologica nella vita del cristiano e nella vita della Chiesa, sono singolarmente diminuite.
Secondo i Padri della Chiesa, è solo con la Parusia che gli uomini entreranno nel loro destino definitivo, e la sorte finale di molti sarà fissata solo al momento del giudizio finale. Fino alla resurrezione, gli stessi santi, benché vicini a Cristo, sono in uno stato di attesa.
La maniera in cui la Chiesa antica concepiva la situazione delle diverse categorie di defunti nell’attesa della Parusia potrebbe essere riassunta così: innanzi tutto, il pensiero cristiano è assolutamente unanime nell’affermare che la nostra esistenza terrena è unica. La fede cristiana è inconciliabile con ogni altra idea di vite successive e di reincarnazione. Sono concezioni che si ritrovano spesso in correnti filosofiche o religiose non cristiane, soprattutto di origine estremo-orientale, e sono assolutamente estranee al cristianesimo. E’ un dato fondamentale della fede cristiana che la vita terrena è unica e che il destino eterno dell’uomo si gioca durante questa unica esistenza terrena.
Dopo la morte, l’anima resta altrettanto viva, altrettanto cosciente, altrettanto attiva come durante la vita terrena, sebbene in maniera diversa. Ma essa non può (fare) più nulla per la propria salvezza. Non può neppure entrare in comunicazione con i viventi, se non con permesso divino, ed ogni forma di evocazione magica dei defunti, di comunicazione medianica con loro e di spiritismo è stata condannata tanto dalla Parola di Dio nell’Antico Testamento quanto dalla coscienza cristiana lungo i secoli: “Non ci sia fra i tuoi alcuno che si dedichi alla divinazione e alla magia…, che faccia ricorso a sortilegi, che consulti evocatori e indovini e che interroghi i morti. Ogni uomo che fa queste cose, infatti, è in odio al Signore” (Dt 18, 10).
Nella tradizione ortodossa, che si fonda sulle visioni accordate a certi santi, si stima che, durante i primi due giorni dopo la morte, l’anima resti ancora sulla terra, a percorrere i luoghi in cui ha vissuto e ai quali è stata legata durante la vita terrena. Dopo il terzo giorno, passa da quello che i Padri della Chiesa chiamano “posto di pedaggio”.
Nelle visioni di Sant’Antonio il Grande, raccontateci da Sant’Atanasio, i “pedaggi” vengono rappresentati nel modo seguente: «Un giorno, al momento di mangiare, mentre era ancora in piedi per pregare verso l’ora nona, vide se stesso rapito in spirito. Cosa straordinaria, in piedi, vide se stesso fuori di se stesso come se fosse condotto in aria da alcuni personaggi; poi ne vide altri, amari e crudeli, in piedi nell’aria che volevano impedirgli di salire. Poiché coloro che lo portavano lo difendevano, gli altri chiesero se fosse sottomesso ad essi e vollero fargli rendicontare a cominciare dalla sua nascita. Le guide di Antonio vi si opposero, dicendo agli avversari: il Signore ha rimesso i peccati commessi dopo la sua nascita; gli potete chiedere conto di quelli che ha commesso dopo che si è fatto monaco e consacrato al Signore. Gli avversari lo accusavano, senza potere provare nulla. La strada fu libera e senza ostacoli. Allora Antonio si vide rinvenire; in piedi davanti a sé, e di nuovo fu sé stesso. Dimenticando il suo pasto, passò il resto del giorno e la notte tra gemiti e preghiere. Ammirava con quale lotta e quali travagli si deve attraversare l’aria e si ricordava di ciò che disse l’Apostolo del principe della potenza dell’aria (Ef 2, 2). Il nemico ha potere di combattere e di ostacolare coloro che salgono attraverso l’aria. Faceva dunque soprattutto questa esortazione: “Per questo prendete l’armatura di Dio, per potere resistere ai giorni cattivi in modo che l’avversario rimanga confuso: non avendo alcuna (cattiveria) da dire su di noi (2 Cor 12, 2).
In seguito, ebbe una controversia con alcuni visitatori riguardo al passaggio e al soggiorno dell’anima dopo la morte; la notte seguente, qualcuno lo chiamò dall’alto: “Antonio, alzati e guarda”. Egli uscì, perché sapeva a chi si doveva ubbidire; alzando gli occhi, vide un essere gigantesco, mostruoso terribile, in piedi alto sino alle nuvole. Esseri che sembravano alati salivano. Il gigante stendeva le mani, ostacolava gli uni; mentre gli altri, volando al di sotto, attraversavano, erano condotti in alto senza essere disturbati. Per questi ultimi, il gigante strideva i denti; ma godeva di vedere cadere gli altri. Subito Antonio sentì una voce: “Comprendi quello che vedi”. Lo spirito gli fu aperto: capì che era il passaggio delle anime, che il gigante in piedi era il nemico che ha invidia dei fedeli, regna su coloro che gli si sono sottomessi e impedisce loro di passare; ma non può dominare dall’alto coloro che non si sono lasciati persuadere da lui. Avvertito da questa nuova visione, lottava sempre di più per progredire ogni giorno»[1].
Così, per i quaranta giorni che precedono l’attribuzione all’anima del defunto della dimora provvisoria sino alla Parusia, i demoni presentano tutto ciò che essa ha potuto commettere come colpe durante la vita terrena; suo solo soccorso è il pentimento che avrà manifestato per i peccati che gli sono imputati, le buone azioni che avrà compiuto durante la vita terrena e l’intercessione della Chiesa e dei santi. La preghiera per i defunti riveste così, dal momento della morte, una grande importanza; protegge l’anima e la difende contro le imprese dei demoni.
Il luogo di ristoro e di riposo
Se l’anima attraversa vittoriosamente questi posti di pedaggio, se i demoni non trovano in lei nulla che essi possano rivendicare, allora viene introdotta dagli angeli nel paradiso o seno di Abramo, in quel “luogo di luce, di ristoro e di riposo, dove non c’è dolore, né lacrime”, ma dove, anzi, in compagnia dei santi gode una ineffabile felicità.
In un bellissimo articolo dedicato a “La beatitudine nell’Oriente cristiano”[2], Myrrha Lot-Borodine riassumeva così l’insegnamento della tradizione patristica su questo soggiorno dei felici:
«“Requies aeterna: requies beata [riposo eterno: riposo dei felici]”. Espressione consacrata dalla Chiesa, presentata come voto supremo a coloro che si sono addormentati nel Signore, a quei destinati postumi che ai nostri occhi non hanno più forma. Espressione che si deve intendere innanzitutto come cessazione di ogni attività esterna “in absolutione corporis [nella liberazione dal corpo]”. L’immagine troppo familiare del sonno, tanto vicina – in apparenza – alla morte, può dare adito a confusione e tradire una realtà altrettanto singolare e profonda. Vi si dovrebbe piuttosto riconoscere quello stato di calma mentale, chiamato dai Greci “apatheia”, o “impassibilità perfetta”, che imita quella divina. Secondo San Massimo che riprende, correggendolo, l’ideale degli Alessandrini, essa è un’assenza totale di turbamento, di pensiero, una stabilità permanente dello spirito che non aspira più al cambiamento. Una tranquillità serena, la “magna tranquillitas” (sant’Ambrogio) che governa l’essere semplificato ridotto alla sua sola essenza, con la sospensione o l’assopimento delle potenze. Oasi della Pace, al di sopra di ogni pace, quella che il mondo non ci dà, ristoro e riposo nel paese della Consolazione: “Gloriosa requies futura [il glorioso riposo che verrà]” (sant’Ambrogio).
Ecco il “beatum esse” [l’essere felice] della prima resurrezione. Questo riposo inalterabile, che non esclude la coscienza né la vita interiore, immanente a questo nuovo modo esistenziale, è uno stato eminentemente contemplativo il cui cuore resta il simbolo. La Scrittura lo paragona al riposo divino della Genesi. Sul suo modello, infatti, il Creatore istituì il sabato di Israele, prototipo del sabato paradisiaco. L’autore dell’Epistola agli Ebrei, riprendendo l’antica minaccia del Signore corrucciato contro razza infedele: “non entreranno nel mio riposo” (Ps 94, 11) aggiunge subito: “C’è dunque un riposo del sabato riservato al popolo di Dio. Perché colui che entra nel riposo di Dio si riposa delle proprie opere, come Dio si è riposato delle sue” (Eb 14, 19) Paragone illuminante, che si trova nello stupendo ufficio ortodosso del Sabato della Passione, quel “sabato dei sabati”, in cui Cristo nel Sepolcro, avendo completato la sua opera salvifica, entrò nel riposo benedetto del triduum. Ed ecco l’ultima alta parola dell’Apocalisse: “Sì, disse lo Spirito, che adesso essi (i Santi) si riposino, perché le loro opere sono appresso a loro” (Ap 14, 13). Parola che sta a significare la fine di ogni travaglio, sia esso fatica o schiavitù. E d’altronde il lino puro che indosserà tutta la Chiesa trionfante, sono le opere stesse dei Santi (Ap. 19, 8). Simili ai gigli dell’evangelo, che non tessono e non filano, le anime quiescenti si espandono, profumate super omnia armata [oltre ogni immaginabile profumo] dalle loro virtù. Si espandono nella libertas paradisi [libertà del paradiso] in unione a Cristo che le porta con Lui. E’ la felice armonia, l’accordo definitivo, il non turbam del requies aeterna [l’impertubabilità dell’eterno riposo], implicando quest’ultimo aggettivo un’altra ottica del tempo, incompatibile con la nostra: la durata senza durata o senza successione di stati. Quietudine che presuppone il non posse peccare [incapacità di peccare] della perfezione, finalmente raggiunta con la similitudo [la somiglianza (a Dio)]. Perfezione del volere e del potere, infinitamente superiore a quella degli avi, ancora in divenire. E con essa, sarà il dono totale dell’impertubatus amor [l’amore senza faglia], l’agape divina e la gioia perpetua del vacare Deo [Nome di Dio] conosciuti e gustati solo da coloro che, avendo maturato e portato i loro frutti terreni, si fondono col silenzio dei doni celesti. Come la sposa del Cantico, con l’anima quiescente fa sentire la confessione segreta della sua veglia: Ego dormio sed cor meum vigilat [io dormo ma il mio cuore vigila]. Sonno mistico della micra anastasis [la “piccola” o prima resurrezione]»[3].
Tra i santi e il mondo dei viventi, nessuna comunicazione “naturale” o di tipo spiritico può essere stabilita legittimamente (cfr. sopra). Ma esiste tra gli eletti e la Chiesa terrena un altro modo di comunicare, puramente spirituale, ma non meno reale. Nella preghiera possiamo rivolgerci a loro; essi possono assisterci costantemente. Tra la liturgia celeste che essi celebrano con gli angeli e le nostre liturgie terrene, esiste una misteriosa compenetrazione che viene evocata nei mosaici e negli affreschi delle nostre chiese.
Qualunque sia la felicità di cui godono così i santi, essi però sono ancora sotto il segno dell’attesa. La loro beatitudine non sarà perfetta se non il giorno in cui Cristo ritornerà, il giorno della resurrezione finale.
L’Ade
Quanto ai peccatori che non hanno potuto superare vittoriosamente la prova dei “posti di pedaggio” perché il loro pentimento non era stato sufficiente e toppo rare le loro buone opere, essi vanno in un luogo di sofferenza dove sono tormentati dai demoni. Anche qui, la visione dei Padri della Chiesa diverge da quella che ha prevalso in Occidente nel Medioevo.
In primo luogo, questa sofferenza non ha un carattere espiatorio e di “soddisfazione” penale temporanea. Il defunto non può (fare) più nulla per se stesso, e la sua sofferenza non può in alcun modo contribuire alla sua liberazione. Egli non è condannato ad una pena più o meno lunga, al termine della quale sarebbe immancabilmente salvato. Non “in purgatorio”, ma nell’Ade, all’inferno, e il suo tormento, di per sé, non avrà fine.
Ma, in secondo luogo, questa sofferenza non ha necessariamente un carattere definitivo. Il pensiero comune della Chiesa antica è, infatti, che prima del giudizio finale, i dannati potranno essere salvati, ma ciò solo e unicamente grazie alla preghiera dei membri della Chiesa terrena. Per questo motivo la preghiera dei defunti riveste, nella coscienza della Chiesa antica e della Chiesa ortodossa odierna, un’importanza estrema: non si tratta, infatti, solo di pregare perché il loro “tempo del purgatorio” sia accorciato, ma perché siano liberati dall’inferno eterno. Lo attestano tutte le liturgie antiche della Chiesa, ivi compresa la liturgia romana così come è stata in vigore fino a poco tempo addietro: sempre, nella preghiera per i defunti, La Chiesa ha chiesto la “liberazione delle anime dal purgatorio”; tutte le formule liturgiche chiedono a Dio di essere misericordioso nel suo giudizio e di liberare il defunto dalla morte eterna. La Chiesa prega da una parte perché i defunti siano protetti dalla misericordia divina al momento del passaggio attraverso i “posti di pedaggio” e giungano in paradiso, e dall’altra, se sono già condannati, perché Dio li salvi nella sua misericordia.
Il ritorno di Cristo e la fine dei tempi
Oggetto dell’attesa ardente della Chiesa, dei vivi e dei morti (che sono altrettanto vivi) è il ritorno di Cristo. La fine dei tempi non deve essere concepita dal cristiano come una catastrofe da temere, ma come la vittoria definitiva del bene sul male, di Dio e del suo regno sul Maligno ed i suoi alleati. La Parusia è la risposta cristiana al problema del male. Essa sarà il compimento finale del mistero della Pasqua, l’ultimo passaggio dalla croce delle prove terrene (e quelle degli ultimi tempi, la “grande tribolazione” escatologica sarà temibile per la Chiesa) alla gioia radiosa della resurrezione.
In questa prospettiva dobbiamo guardare il giudizio finale. Come tutti i “giudizi” divini nella Bibbia, esso sarà essenzialmente un atto di liberazione e di salvezza. Coloro che saranno condannati, sono coloro che volontariamente si saranno identificati con le forze del male, con l’opposizione al regno di Dio, al suo disegno di salvezza e di felicità infinita per le sue creature. Alla loro sconfitta definitiva si oppone la vittoria di tutti coloro che avranno accettato di essere salvati, di essere amati e di amare Colui che li ha amati: “Sforziamoci dunque innanzitutto di portare dentro di noi il segno e il sigillo del Signore, perché quando verrà il Giudizio, quando si vedrà il rigore di Dio” (cfr. Rm 11, 22), quando tutte le tribù della terra e tutto il Genere umano (Adamo) saranno riuniti, quando il pastore chiamerà le sue pecore, tutti coloro che avranno il suo segno riconosceranno il loro pastore, e il pastore riconoscerà coloro che porteranno il suo sigillo speciale. Egli li riunirà da tutte le nazioni. Perché “i suoi ascoltano la sua voce e lo seguono” (Gv 10, 27). Il mondo infatti verrà diviso in due: da un alto, il gregge scuro che andrà al fuoco eterno; dall’altro, il gregge risplendente di luce, che sarà condotto verso la sua eredità celeste. Ebbene sarà precisamente ciò che sin da adesso possediamo nella nostra anima, che allora risplenderà, si manifesterà e rivestirà di gloria i nostri corpi.
Nel mese dello xantico, le radici sotterrate producono ciascuna i propri fiori e i propri frutti con la loro bellezza, e fruttificano. Le buone radici e quelle che portano spine diverranno manifeste. E’ così che in quel Giorno ciascuno rivelerà col fulgore del suo corpo le proprie azioni passate; il bene e il male saranno manifesti. In questo infatti consistono tutto il giudizio e la ricompensa[4].
L’apocatastasi
Apocatastasi è una parola greca che significa restaurazione di uno stato anteriore, il ritorno ad una situazione originaria. Applicata all’escatologia cristiana, esprime una teoria secondo cui, alla fine dei tempi, tutto l’universo creato sarà ristabilito nella sua armonia originaria e tutti saranno salvati, ivi compresi i dannati e i demoni.
Questa concezione si collega alla visione “mitica” del cosmo elaborata da Origene (185 – 254). Questi pensava che in origine Dio avesse creato un universo composto di esseri puramente spirituali; facendo cattivo uso della loro libertà, tutti – ad eccezione dell’anima di Cristo – avrebbero peccato più o meno gravemente, e pertanto sarebbero stati rivestiti di corpi più o meno “densi”, e così sarebbero divenuti angeli, uomini o demoni. Alla fine dei tempi, dopo successive purificazioni, tutti ritornerebbero alla loro prima condizione e ricostituirebbero l’originaria enade, cioè l’unità primigenia delle creature spirituali.
Questa concezione della salvezza universale, che nega l’eternità dell’inferno, misconosce sia l’insondabile mistero dell’amore di Dio, che trascende ogni nostra concezione razionale o sentimentale, sia il mistero della persona umana e della sua libertà. L’amore di Dio implica un totale rispetto delle sue creature, andando sino ad una “impotenza volontaria” di fronte all’eventuale rifiuto della loro libertà. I testi della Scrittura ci obbligano a mantenere le due affermazioni antitetiche della totale vittoria di Dio sul male alla fine dei tempi, e della possibilità della dannazione eterna, essendo la seconda l’inverso della prima. Qui, dinanzi al mistero si addice solo il silenzio dell’intelletto.
Per questo la dottrina dell’apocatastasi, accettata da San Gregorio di Nissa e, poi, dai grandi mistici siriani Isacco di Ninive e Giuseppe Hazzaya, è stata condannata nel 553 dal V Concilio ecumenico, contestualmente ad un certo numero di elementi della dottrina di Origene, ridotta a sistema da tardivi discepoli. Il rifiuto dell’affermazione della salvezza universale da parte della tradizione ortodossa non impedisce evidentemente l’intercessione ardente per la salvezza di tutti e la speranza della loro conversione finale.
L’epictasi
Ancora un’altra domanda può essere fatta a proposito della beatitudine eterna degli eletti: essa deve essere concepita come una contemplazione immobile e saziante, o può comportare una crescita, una scoperta incessantemente rinnovata da una Realtà inesauribile?
Uno degli aspetti più originali del pensiero di San Gregorio di Nissa è la sua dottrina dell’epictasi, secondo cui la divinizzazione dell’uomo, quaggiù e nell’eternità, implica un progresso e una tensione che non ha fine, illustrata dall’immagine del corridore dell’Epistola ai Filippesi (3, 13): “Dimenticando il cammino percorso, vado dritto in avanti, con tutto il mio essere proteso (épeicteimenos: donde il termine epictasi) e corro verso la meta…”. Come spiega Jean Daniélou, uno dei migliori conoscitori del grande Cappadoce: “C’è per l’anima contemporaneamente un aspetto di stabilità, dato dalla sua partecipazione a Dio, e un aspetto di movimento, dato dallo scarto sempre infinito fra ciò che essa possiede e ciò che è Dio… La vita spirituale è pertanto una trasformazione perpetua dell’anima in Gesù Cristo sotto forma di un ardore crescente, la sete di Dio aumenta a misura in cui Egli è sempre più partecipato, e di una stabilità crescente, unendosi e fissandosi l’anima sempre più in Dio”[5].
Senza prendere in considerazione l’idea di una crescita nella beatitudine, numerosi autori dell’epoca patristica – in particolare San Massimo il Confessore – hanno utilizzato il tema del desiderio, dell’assenza di sazietà in seno stesso alla visione di Dio per esprimere l’eterna novità della gioia degli eletti. In Occidente, se ne ritrova l’eco in Gregorio il Grande. Si trattava per lui di conciliare due affermazioni antitetiche della Scrittura: “Gli angeli desiderano fissare i loro sguardi su di Lui” (1Pt 1, 12); e “In cielo i loro angeli vedono incessantemente il volto di mio Padre che è nei cieli” (Mt 18, 10): se si confrontano queste due affermazioni, si constaterà che esse non si contraddicono in nulla. Perché gli angeli, contemporaneamente, vedono Dio e desiderano vederlo; hanno sete di contemplarlo e lo contemplano. Se lo desiderassero senza godere dell’effetto del loro desiderio, questo desiderio sterile sarebbe causa di ansietà, e l’ansietà di sofferenza. Ma felici gli angeli sono lungi da ogni sofferenza di ansietà, poiché sofferenza e beatitudine non sono compatibili… Perché dunque non vi sia ansietà nel desiderio essi sono sazi pur desiderando, e perché la sazietà non comporti disgusto, essi desiderano pur essendo sazi… sarà così pure per noi quando giungeremo alla fonte della Vita: proveremo con delizia, insieme sete e sazietà[6].
Opuscolo edito dalMonastero Saint-Antoine-le-Grand,
26190 St-Laurent-en-Royans, France.Riprodotto nella rivista Le chemin n 33 (1996)
26190 St-Laurent-en-Royans, France.Riprodotto nella rivista Le chemin n 33 (1996)
Traduzione dal francese del prof. G. M.
© Tradizione Cristiana
Agosto 2005
© Tradizione Cristiana
Agosto 2005
[1] S. Athanase d’Alexandrie, Vie de saint Antoine, c. 65-66.
[2] Myrrha Lot-Borodine, “La béatitude dans l’Orient chrétien”, in Dieu Vivant, 15 (1950), pp. 85 ss.
[3] Idem., pp. 106-107.
[4] Macaire d’Égypte, Homélies spirituelles, 12, 13-14, (“Spiritualité orientale”, n° 40), Abbaye de Bellefontaine, 1984, p. 170.
[5] J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique, Paris, 1944, pp. 305-307.
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