Una delle peculiarità della Chiesa ortodossa è quella di legare tra loro, in un’inscindibile unità, la teologia (la riflessione sulla realtà e l’esistenza di Dio), la spiritualità (la pratica cristiana) e la ecclesiologia (il concetto di Chiesa). Chi non vive all’interno dell’ottica ortodossa, pur essendo cristiano, tende a slegare questi aspetti e non riesce a vedere delle intime e necessarie connessioni tra loro. Chi pensa al cristianesimo come a una realtà sociologica, filosofica, umanitaria e ideologica ha già operato tale frattura. In questo caso la teologia è totalmente avulsa dalla vita umana e può esserci chi concepisce ideologicamente la salvezza dell’uomo dai vincoli del suo decadimento anche all’esterno dell’Ortodossia o all’esterno dello stesso Cristianesimo, cioè prescindendo completamente da Cristo.
In ciò bisogna essere chiari. Parlare di salvezza richiama lo speculare concetto di peccato. Entrambi non esistono se non in relazione a una persona e a un ambiente dove sono sperimentabili. Prima di tutto è necessario definirli. La sperimentazione della salvezza non è qualcosa di astratto o di teorico. La salvezza non è una promessa che riguarda semplicemente un periodo successivo alla morte. Non è neppure una semplice sensazione o un’emozione temporanea. Significa avere la certezza, pur velata dalla fede, di essere stati toccati da qualcosa di non umano d’aver “visto” indicibilmente che oltre questa vita esiste la pienezza della vita. La sperimentazione del peccato e quindi della morte che ne consegue, comporta essersi scontrati con il proprio limite, un limite che prostra e lascia il sapore della caducità. La nostra letteratura, d’altronde, è piena di pagine nelle quali si riconosce e si descrive la morte e il peccato dell’uomo: l’opprimente senso della nostra finitezza. In molti romanzi è piuttosto difficile trovare note un po’ meno cupe, soprattutto nell’epoca moderna…
Salvezza e peccato sono due estremi che sembrano richiamarsi l’un l’altro. L’uomo attuale ignora o ironizza sul concetto di peccato ma lo vive quotidianamente e le ferite che a volte gli derivano gl’infondono la stessa sofferenza che pativa l’uomo antico a causa dello stesso male. Il credente, oltre a gustare il peccato e i suoi amari frutti, può vivere anche la salvezza e così ha modo di riconoscere, nella differenza, cosa significhi la libertà cristiana. Salvezza e peccato sono due estremi che non devono essere concepiti come se fossero l’acceso-spento di un interruttore. I due, infatti, sono legati da un’infinita gamma di gradazioni discendenti o ascendenti. È qui che si deve cogliere il legame tra l’individuo e il suo ambiente, tra il credente e la sua chiesa o la sua religione.
L’Ortodossia non afferma che, al di fuori di essa, esiste solo errore e buio. Per la bocca dei suoi santi ha sempre affermato che una vita ortodossa (ossia aderente alla tradizione dei Padri divinizzati) comporta la pienezza della Grazia, dono di Dio, quella stessa Grazia che vorrebbe donarsi proprio a tutti ma non trova in tutti la stessa possibilità di farlo. Un ambiente aiuta o blocca in forma più o meno intensa, favorisce la chiusura o l’apertura del cuore umano. Esiste, dunque, un’evidente relazione tra la persona e il suo ambiente, tra il credente e la sua chiesa. Il giorno in cui, nella Chiesa ortodossa, non si volesse più aderire alla fede dei Padri si creerebbe un’alienazione e un depistamento dal retto cammino lungo il quale si sperimenta la salvezza, si favorirebbe la chiusura del cuore di chi cerca sinceramente Dio.
È molto azzardato affermare che non esiste alcuna salvezza nelle chiese non ortodosse e che la Grazia non vi operi in qualche modo. Ma è altrettanto azzardato credere che si può essere toccati dalla pienezza della Grazia al di fuori della retta dottrina e del corretto modo di vivere il Cristianesimo, cioè al di fuori della Chiesa ortodossa. La Chiesa ortodossa, infatti, non corrisponde a un elenco di cose da credere o a un insieme di dettami morali. È la corretta dottrina vissuta nella carità dello Spirito e ciò la edifica, appunto, come ambiente ecclesiale ortodosso, Chiesa ortodossa, Corpo del Cristo nel quale la vita divina, non trovando ostacolo, s’irrora nelle membra vivificandole e fa percepire, nel contatto sanante, l’Unicità e l’Unità indistruttibile di tale Corpo. La Chiesa ortodossa non è composta, dunque, da un insieme d’idee più o meno convincenti ma da una vita divina che si versa nelle vene degli uomini che a lei aderiscono. Non ha vuote parole da mostrare ma silenziosi e profondi fatti.
La Chiesa ortodossa, quale realtà umana, non è data una volta per tutte: ha bisogno di essere sempre realizzata. Non basta essere stati battezzati ortodossi, frequentare la Liturgia, essere persone oneste, portare un certo tipo di abito laicale o clericale… È necessario vivere della vita dello Spirito ossia essere morti al modo mondano di vivere e pensare. In caso contrario, si realizza una realtà nominalmente ortodossa ma, di fatto, sterile. Una realtà formalmente ortodossa è solo testimone dell’allontanamento di Dio da un ambiente e dalle persone che la compongono. Diviene segno di divisione e di confusione, non offre alcuna credibile alternativa al modo mondano di vivere e comportarsi.
Essersi allontanati da Dio significa, a sua volta, essersi allontanati dalla possibilità di sperimentare che in Lui esiste la ricomposizione di ogni frattura, sia a livello personale sia a livello interpersonale. Significa non capire più la necessità di un ambiente e di relazioni vitali nel proprio cammino di maturazione della fede, non capire più il senso del dogma e della Chiesa o, al limite, equivocarlo come se fosse un mezzo per esercitare su terzi un controllo e un potere di tipo personalistico e mondano. Viceversa, vivere in Dio significa sperimentare l’unità tra il pensiero e la vita tra l’individuo e l’ambiente. Ecco perché nei santi la salvezza richiama necessariamente la retta dottrina e il corretto modo di viverla nell’appropriato ambiente ecclesiale. Ma sentiamo cosa dice, a tal proposito, il teologo ortodosso francese Jean-Claude Larchet:
Per san Silvano la prima condizione per acquisire lo Spirito Santo è l’appartenenza alla Chiesa. Infatti, il santo parla de “lo Spirito Santo che abbiamo conosciuto nella Chiesa” o de “l’amore [di Dio] che ci è rivelato nella Chiesa per lo Spirito Santo”. Ne consegue con necessaria evidenza che, per lui, la Chiesa è la Chiesa ortodossa. È necessario ripetere ciò a causa di coloro che vedono in san Silvano “un santo senza frontiere”, una persona in qualche modo sopraecclesiale, indifferente a quant’è specifico alla fede ortodossa il cui insegnamento e la cui esperienza sarebbero realizzabili da ognuno indipendentemente dalla natura della sua fede e dalla chiesa alla quale appartiene.
Lo Starets Silvano non insiste sul fatto che la grazia non può essere ricevuta pienamente che nella Chiesa ortodossa per la ragione che per lui ciò è scontato e perché egli si colloca in un contesto totalmente ortodosso dove non c’è bisogno di insistere in tal senso. Nonostante ciò alcuni passi dei suoi scritti ci rivelano chiaramente la sua opinione a tal riguardo: “Noi siamo beati, cristiani ortodossi, poiché il Signore ci ama e ci ha accordato la grazia dello Spirito Santo”. “Se il Signore stesso non avesse donato lo Spirito Santo al popolo ortodosso e ai nostri santi pastori, non sapremo come Egli ci ama”. “Nella nostra Chiesa l’amore divino è conosciuto attraverso lo Spirito Santo”. “Lo Spirito Santo è presente nella nostra Chiesa; Egli agisce nei Sacramenti”. “Quanto siamo beati, noi cristiano-ortodossi, dal momento che il Signore ci ha donato la vita nello Spirito Santo”. “Oh! Quanto compiango gli uomini che non conoscono Dio! Ma noi cristiano-ortodossi siamo felici poiché Lo conosciamo. È lo Spirito Santo che ci ha dato questa conoscenza”.
Pare che oggi sia necessario insistere su questi concetti, un tempo assolutamente scontati e pacifici. D’altronde, una certa confusione attorno ad essi è penetrata anche in alcuni ambienti della Chiesa ortodossa che così risultano essere più attenti ad equilibri politico-ecclesiastici che alla esigente testimonianza della libertà evangelica e dell’amore verso tutti, testimonianza trasmessa e incarnata dai santi della Chiesa ortodossa. Esprimere chiaramente la tradizionale opinione della Chiesa ortodossa a tal riguardo, lungi da sembrare un messaggio di fiera contrapposizione, dev’essere inteso come un dono e un atteggiamento onesto prima di tutto verso se stessi. D’altronde, tra i segni che la Chiesa ha storicamente adoperato per rappresentare la sua realtà, troviamo l’aquila, la colomba, il leone… mai il camaleonte!
Pubblicato originariamente in: http://digilander.libero.it/ortodossia/PienezzaSalvezza.htm
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